venerdì 28 febbraio 2014

Del corpo, dell’essere sempre corpo

“La mia passione per il corpo in movimento si basa anche sull'analisi di relazione che il corpo stesso intesse con il circostante. Ciascuno di noi si muove all'interno di uno spazio che è il suo vissuto ma che contemporaneamente entra in relazione con lo spazio/vissuto di un'altra persona. Nei movimenti reciproci tutto questo si manifesta chiaramente. Chiamo questo spazio comune, spazio di relazione”
(C. Coldy)

by Xakriuth
Viviamo anni di attenzione spasmodica al corpo. Un corpo, però, inteso come oggetto, corpo alienato, corpo separato, in un’operazione impossibile, dal “tutto” che è ogni individuo.
Eppure, che siano l’antico sapere taoista o gli studi di neuroscienze o la psicologia, è alla portata di tutti comprendere che
Noi siamo corpo, impasto fisicoemotivo complesso ed inseparabile; ovvero mai possiamo non essere corpo, mai possiamo lasciarlo nell’armadio, come faremmo con una giacca: noi sempre, in ogni momento, viviamo corpo.
Ogni gesto che compiamo, tanto più se ripetuto nel tempo, influenza il nostro stato emotivo fino a modellare idee e valori del nostro vivere quotidiano. Ah, ovviamente, vale anche il percorso inverso !
Partendo da ciò, possiamo, come faccio da anni, sostenere che nella forma percettibile del corpo si parafrasa sia il come si è che il come si agisce. Questo perché l’insieme psicofisico connette le tre parti: vita psichica, vita vegetativa inconscia e vita tonico - motoria, cosciente e riflessa. Ciò che le mette in relazione è il moto, presente in ogni essere vivente, anche quando questi assuma una posizione statica. Quest’ultima, infatti, non impedisce né respirazione, battito cardiaco, ecc né i moti d’animo, la “imago – azione”.
Qui, voglio solo, come faccio spesso !, prendere le distanze da pratiche corporee usuali, di “tendenza” oggi, come la preparazione atletica, l’uso di macchinari per gonfiare e/o irrobustire i muscoli, che hanno alle spalle una concezione semplicistica e meccanica del corpo umano, appoggiandosi ad una concezione scientifica di stampo ottocentesco. Ovvero una concezione che nega la complessità, quando, da anni, biologia, sociologia, management, matematica, fisica, economia, filosofia, psichiatria e psicologia, solo per citare alcune branche del sapere umano, stanno adottando i princìpi della complessità, a volte anche affrontando cambiamenti di paradigma.
Cosa significa complessità, nel campo del movimento ?
by Loulou52
Significa inglobare, per ottenere una gestualità efficace ed efficiente, con lo studio dei muscoli e delle articolazioni, con l’introduzione del concetto di catene muscolari e miofasciali, la muscolatura profonda, quella deputata, ma guarda un po’ !?, all’equilibrio.
Essa agisce grazie alle funzioni più antiche del nostro cervello, quello che, forte di milioni di anni di vita, ha nel tempo costruito una coordinazione superlativa, tale da condurre la muscolatura profonda ad agire con una sinergia tale da farla sembra un unico muscolo.
La muscolatura profonda, poi, è correlata al sistema viscerale, agli organi. Questi ultimi sono in gran parte composti da tessuto connettivale, ovvero le qualità di ogni organo in quanto a densità, idratazione, ecc. dipendono dagli stessi principi del tessuto connettivo del resto del corpo.
E’ così che un buon lavoro sulla muscolatura profonda permette all’individuo di essere corpo il più naturalmente e semplicemente possibile. Sì, naturalmente e semplicemente: ho scritto di complesso non di complicato così come “complesso” prende le distanze dal “semplicistico”, dal riduttivo, dalla sommatoria di elementi, che, in linea retta, A poi B poi C…, porterebbero all’obiettivo. E come no ?!?!?
Avete presente, in fisica, il fatto sconcertante che, come in un frattale, ad ogni nuovo livello studiato i fisici incontrano realtà sempre nuove ? Le particelle precedentemente considerate “elementari”, una volta che si scenda di scala, mostrano tutta la loro complessità; come osserva l’astrofisico Laurent Nottale, non è mai stato scoperto un livello in cui gli oggetti fisici diventino davvero semplici.
Oppure in sociologia, l’”ideologia delle reti”: Tutti i modelli dei sistemi sociali sono stati ridisegnati sotto forma di reti, reti formali, reti informali, reti di servizi, reti di sostegno, ecc. e sotto forma di  multidimensionalità.
Tralascio qui i campi che mi sono propri: Educazione / formazione, psiche e … Arti Marziali.
Dunque, per tornare a noi, muoversi contando consapevolmente sulla muscolatura profonda, permette uno sviluppo integrato dell’individuo, ovvero carattere e … personalità.
Si tratta di prestare attenzione, di essere consapevole  di quella parte del corpo, di quella porzione di gesto; poi di lasciarsi andare, di mostrarsi vulnerabile, di accettare i segnali, il fisicoemotivo che ti sta parlando; infine… di permetterti di sprofondare nel piacere di respirare, agire, in una parola, il piacere di essere vivo.
Scopriamo così che il corpo (ovvero io-corpo) non è come generalmente lo si intende ed allora? Nel momento in cui  è possibile percepire in modo accurato la diversa organizzazione interna che il corpo prende in relazione alle diverse situazioni, quello con cui ci ritroviamo non è solo un corpo diverso, ma anche un raffinato mezzo di indagine e di penetrazione della realtà e della cultura. Un corpo matrice di segni.
Corpo-Mente-Spazio-Cultura sono infatti in continua relazione e la possibilità di sentire e capire un polo (il corpo) ci permette di capire tutti gli altri.” (J. Tolja)
by Deadstarlight
Certamente, ognuno faccia, “si alleni” come crede. Un ragazzo a cui preme il successo sportivo, vuoi per le caratteristiche date dall’età che non l’aiutano a stare nel “lento”, nell’ascolto, vuoi per i tempi assai ristretti che richiede il raggiungere una performance agonistica di livello, si getterà su preparazione atletica e pesi: alte prestazioni ottenute in un lasso breve di tempo. Un individuo che consideri il corpo alla stregua di un vestito, si getterà in palestra a farsi addominali a “tartaruga” e bicipiti gonfi. Tempo addietro, un ex allievo mi disse che praticare pesi costantemente avrebbe aiutato ad invecchiare meglio, a muoversi meglio pur nell’avanzare dell’età … potenza del marketing o pura imbecillità ?
Io, di par mio, che so di essere un tutt’uno fisicomoetivo, scelgo altro.
Guardo muoversi  Anna Halprin, over novanta, Ruthy Alon, over ottanta, Emilie Conrad, over settanta, e so che in quella direzione voglio andare, in quella direzione voglio accompagnare i miei allievi.
In questa direzione:


“Perché tutti i miei colleghi sprecano le pause pranzo correndo ( più che in ufficio ) per fare 35minuti di zumba o pilates, quando potrebbero viaggiare in Sud America, stando seduti comodamente sul cesso dell’ufficio ……?” (A. Ambrogio)







giovedì 20 febbraio 2014

Del "Dare la morte"

“Ancora un volta in lotta
nell’ultima battaglia che conti
di cui ho mai saputo
vivere e morire in questo giorno
vivere e morire in questo giorno”
( dal Film “The grey” )

by N. Zouein
A volte, in pedana, mi soffermo ad indicare che il fine ultimo, tragico ma cuore della pratica marziale, è il dare la morte.
Non pratichiamo sport da combattimento, con regole, arbitri, categorie di peso e, soprattutto, scelta dei modi e dei tempi in cui avere un avversario ( avversario, non nemico  o almeno così dovrebbe essere per “regolamento”, per convenzione !! ) ed averlo, appunto, in un contesto di relativa sicurezza all’interno di un “gioco”.
Scrivo “relativa” perché, soprattutto negli sport più duri, tipo boxe e gare di MMA, l’incidente grave, anche mortale, è davvero “dietro l’angolo”.
Però, nell’arte marziale, non di incidente si tratta, ma di morte, uccisione volontaria.
Dare la morte è un concetto di una potenza illimitata, esorbitante.
La visione dell’ottimo “The punisher” ( nella versione del 1989, con Dolph Lundgren, non il simpatico polpettone uscito un paio d’anni or sono ) pone subito in primo piano l’arroganza dell’uomo che vuole farsi Dio, scegliendo chi deve vivere e chi morire. Insomma, senza citare tomi profondi, filosofi e dottrine di pensiero, la visione di quel bellissimo film già ci pone la domanda clou: Chi sono io per decidere di togliere una vita ? E, se costretto, ovvero posto davanti all’alternativa secca, io o te, sono in grado, nel mio essere e fare fisicoemotivo, di scegliere quel gesto che, comunque lo si chiami, sempre omicidio è ?
Tema, questo, del dare la morte, che presenta diversi aspetti.
Qui ne voglio sottolineare due, che pongo all’attenzione di chi mi legge ed eventualmente vorrà trattarne.
Questi sono anni che:
grazie alla globalizzazione, ai videogiochi “sparatutto”, allo sdoganamento nei notiziari televisivi e nelle trasmissioni televisive in genere di ogni sorta di morte violenta;
grazie alle nuove scoperte mediche che, di pari passo con una visione che vuole la vita più lunga possibile, prolungano lo stato di vita degli umani con ogni metodo;
pongono la morte,  Ade, in una dimensione del tutto nuova. Una morte anestetizzata dalla sua banale quotidianità, come spuntata dal suo orrore totale, dal suo essere segno di fine. Fine come … stop, come non c’è più nient’altro dopo, per te.
Ade ha perso il posto che gli è toccato per secoli, così che la morte, nel suo significato più profondo, non ha più presenza nel mondo, scacciata dal dominio della tecnica per lasciar posto al nuovo ritmo produzione-consumo, che non guarda agli scarti, alla sofferenza, alla morte che si lascia dietro, nella violenza dello sperpero, del consumo senza godimento.
Parlare di “dare la morte”, agire, in pedana, per imparare ad uccidere …
 “Solo chi sa combattere può non combattere e chi non sa combattere può solo farsela addosso… Le masse irresponsabili sono invitate a “non uccidere” perché il potere abbia vita facile… Ma nella realtà bisogna saper uccidere per cercare di non uccidere più. Si, nel Judo io insegno a combattere e simbolicamente ad uccidere, ma intanto insegno anche un principio morale…”
(C. Barioli, Corpo Mente cuore – Manifesto per una nuova educazione)
Eros e Thanatos sono fratelli,  simili allo  yin e yang,  la compenetrazione degli opposti, che, nella rappresentazione più conosciuta,  non sono separati da una linea retta, ma invadono il territorio l’uno dell’altro, essi, vita e morte, vivono insieme.
Come ci ricordava il poeta “dal letame nascono i fiori …”
Ritengo, e pratico in questo senso, che solo sapendo amare si può saper uccidere e viceversa.
Solo sapendo apprezzare la grandezza unica ed irripetibile del vivere e con ciò del donarsi, saremo in grado di scegliere consapevolmente, ovvero fuori da nostre proiezioni, rancori covati e repressi, improvvise esplosioni di collera, paura vigliacca che si fa violenza estrema, se uccidere o no un altro essere vivente.
Solo gustando la potenza illimitata, l’inebriarsi folle che dà il potere di morte su un altro essere vivente, saremo capaci di vivere intensamente donando di noi al cuore di un altro e rispettando noi e l’altro.
Per questo, dopo averne viste e, assiduamente o meno, praticate tante di Arti Marziali e loro versione sportiva (diversi stili di Karate fino al Contact, Kenpo, Ju Jitsu, Tai Chi Chuan, Wing Chun, Kali, Judo, Yoseikan Budo, ecc) ed averle poi proposte principalmente come metodi per imparare a darle prendendone il meno possibile, da una dozzina d’anni ho voltato pagina.
Propongo la pratica marziale, qui allo Z.N.K.R., come metodo per conoscersi, crescere guerriero (“colui che sa stare nel conflitto”), che il conflitto sa affrontarlo come risorsa propria e delle relazioni. Non mi interessa menare le mani tanto per farlo o per dare al praticante un “vestito” con cui coprire la nudità, la vergogna, delle proprie paure, delle proprie frustrazioni.
Uso il combattere, il menare le mani, per la formazione dell’individuo, perché sia pronto e capace nel vivere di tutti i giorni, sorta di terapia, di “body counseling”, perché il praticante esprima appieno la propria personalità  e la sappia sviluppare con gli altri.
Che questi ci riesca fino in fondo o meno, comunque ci avrà provato. Nessuno mai gli griderà in volto “Il re è nudo !!”, come il bambino della favola di Andersen può invece fare, in ogni momento, con chi fa dell’Arte Marziale o degli sport da combattimento uno sfogatoio o un gioco manipolatorio, quando non cerebralmente autoerotico.
Migliaia di filosofi, di pensatori, di studiosi, hanno in vario modo interpretato il mondo. Altri, altrettanto famosi come Carl Marx, Jigoro Kano, Georges Ivanovič Gurdjieff, Danilo Dolci, Fritz Perls, si sono adoperati per trasformarlo.
Sulla scia dei secondi, io, piccolo, anonimo ed incerto nel mio procedere, come migliaia di altri anonimi, di sconosciuti nel mondo, ognuno con gli strumenti che ritiene più opportuni, opero perché ogni individuo che entri in Dojo, per il periodo che vorrà condividere con la Scuola, scopra la sua personale vitalità, fantasia ed amore di vivere. Convinto che dall’essere umano, da ogni essere umano, inizi la trasformazione dell’ambiente tutto, del mondo.
La mia visione delle Arti Marziali, che offro ai praticanti della Scuola, è questa. La “formazione marziale” per me è accompagnare uomini, donne, bambini e ragazzi a affrontare se stessi, l’ ”interno paese straniero” per citare Sigmund Freud,  e l’ambiente.
Quando le Arti Marziali servono a questo, hanno ancora valore oggi, in Italia nel terzo millennio. Queste, comunque, sono le Arti Marziali  così come a me interessano, è quello che io ho imparato, masticato e digerito, in quasi quarant’anni di pratica.
La pratica marziale come, credo, fosse alle origini, sia nella sua forma più brutale, Jutsu, pratica di sopravvivenza, unica in grado di far star bene il combattente (altrimenti … moriva !!), sia nella forma che prese evolvendosi, Do, ovvero Via morale, etica, di elevazione dell’individuo. Due facce della stesa medaglia, come Eros e Thanatos.

"...Ogni giorno è un viaggio
e il viaggio stesso, casa..."

 ( Matsuo Bancho)






martedì 18 febbraio 2014

La parte degli angeli

Un altro fine settimana in acque agitate, tra una riunione di equipe in cui a malincuore mi sfilo da un progetto annusando pretese mammo-fagocitanti che fanno copia con un evidente stato di forclusione; la visita, sempre emotivamente intensa, a mia madre in casa di riposo; un turno di lavoro della serie “Che ci faccio qui ?”; la dolorosa rinuncia allo stage invernale causa adesioni insufficienti, che, di conseguenza, getta preoccupanti ombre sul futuro della Scuola; un raffreddore e dei brividi di freddo che mi debilitano il fisico; la letta di alcune voci la cui isteria e ipocrisia mi rammarica assai; la mia voglia di coccole e incoraggiamento che monta a dismisura e si guarda intorno, disorientata, ma evita di mostrarsi apertamente, di offrirsi.
Due le belle occasioni per chetare, almeno temporaneamente, le onde agitate.
Una è lo spettacolo di cabaret dedicato a Bertold Brecht che la “Dual Band” mette in scena proprio dietro casa mia. Momento non solo per Lupo di vedere nuovamente in azione i docenti da cui sta imparando a muoversi in scena, ma per me di ricordare canzoni e testi che hanno in parte accompagnato la mia adolescenza. Anni in cui, tra lotte sessantottine, feste e ragazze, scorribande in moto e partite a boccette, musica psichedelica e poesia beat, trovarono posto gli studi severi del pensiero marxista e l’incontro, appunto, con le opere di Brecht e Frank Wedekind.
L’altra è la visione del film “La parte degli Angeli”.
Pellicola che mi ero fatto registrare tempo addietro ed era in attesa di essere vista, è Claudio, in una telefonata, a dirmi che sta guardando, in TV, un gran bel film: “La parte degli angeli”, appunto.
Sùbito, scelta condivisa da Monica, ci accoccoliamo sul divano e … via alla visione !!
Film di impegno sociale, con alla regia lo spigoloso Ken Loach, narra di degrado e violenza, di riscatto sociale che però, per avviarsi, abbisogna di un espediente del tutto illegale.
Un mix di elementi che mi ha posto alcune domande.
Sì, perché nel film c’è la possibilità di un riscatto sociale che è offerta come necessaria in questi tempi in cui il dio Mercato fagocita quotidianamente uomini ed anime; il tramite occasionale  è l’alcool, bevanda abitualmente assimilata agli eccessi ed alle trasgressioni più che alla redenzione; la nascita di un figlio, concepito da un giovane delinquente e dalla figlia di un boss malavitoso, comunemente apre le porte ad una vita di degrado e non ad una vita di speranza e di inno al futuro; il protagonista si avvale di un reato per riscattarsi e prendere la “retta via”, reato che si attorciglia su un ipotetico reato ancor più grave messo in cantiere dagli adulti, adulti ricchi, potenti e rispettati, in una società in cui l’oppressione delle classi subalterne è la norma.
Lo stesso titolo, in originale “The Angels’ Share”, nel significare un momento del processo di invecchiamento del whisky, in realtà strizza maliziosamente l’occhio al ruolo destabilizzante, di cambiamento radicale, che può avere per ciascun individuo un incontro ( ogni incontro ?) se solo sappiamo coglierne l’essenza dietro l’apparenza.
Mi ha colpito, poi, l’approccio disinvolto e insieme responsabile di Robbie, il giovane protagonista, a quello che, di lì a poco, sarà solo il suo passato di violenza ed emarginazione. Una cicatrice che gli attraversa il volto tutto e che lo perseguita (segno e simbolo) da anni nelle sue relazioni, classificandolo come un poco di buono, inevitabilmente ricorderà a lui ed ai vecchi amici chi lui è stato.
Questo non gli impedirà di affrontare serenamente il futuro, ma gli impedirà, quando vorrà tornare “indietro” per rivisitare luoghi ed amici della giovinezza, di negare il suo passato come se per lui non fosse mai esistito, come se lui fosse sempre stato quella brava persona che ora è o vuole far sembrare che sia.
Io ho letto le ultime scene della pellicola come una reale svolta di Robbie verso un’adultità seria e coraggiosa. Ma … non lo saprò mai !!
Qui, ora, penso a come sia difficile, soprattutto se non hai una cicatrice indelebile a ricordartelo, essere onesti con se stessi assumendosi le responsabilità di un passato che, a volte, si vorrebbe essere stato diverso quando non mai esistito.
Leggo, incontro, a più riprese, goffi tentativi manipolatori di presentarsi “politically correct”, una brava  persona, proprio davanti a chi, invece, ha conosciuto, con le dovute differenze !!, il “Robbie” della situazione.
So che è difficile fare i conti col proprio passato, lo so bene io che “il sacco”, dopo anni ed anni di fatiche, ancora non l’ho svuotato del tutto. Ma un passo fondamentale per svuotarlo tutto è non fingere di non averlo avuto ben pieno. Altrimenti, e ne sono convinto, quella faccia da bravo ragazzo, da persona equilibrata, sarà solo una … facciata, un ruolo, una maschera per chi le palle di affrontarsi non le ha.
Beh, Robbie, comunque andrà il suo riscatto, questo problema non ce l’ha: con quella cicatrice, sembra volerci dire il regista, dovunque andrà, saprà sempre da dove è venuto. E forse questo, cicatrice o meno, vale per ognuno di noi, che il percorso lo si stia faticosamente ma sinceramente affrontando o che spudoratamente si finga di essere già arrivati senza aver avuto bisogno di partire.

“La parte degli angeli” non è un capolavoro, ma poco meno di due ore dedicate alla sua visione sono un bell’affare !! Soprattutto per chi, come me, volga il suo interesse al maschile, al disagio, al percorso di individuazione, alla paternità ed all’educazione / formazione in genere.


martedì 11 febbraio 2014

La “Notte del Guerriero”, per esserci

Ognuno sta solo sul cuor della terra
 trafitto da un raggio di sole:
 ed è subito sera”
(S. Quasimodo)

La strada scorre, arricchita dai bagliori del sole: dopo giorni e giorni di pioggia, ne sento il bisogno !!
Siamo alla scoperta di un Agriturismo, dalle parti di Ozzero, nelle campagne appena fuori Milano, in cui organizzare la quarta edizione de “La Notte del Guerriero”: allenamento non stop dalla mezzanotte del sabato, alle otto della Domenica mattina.
Il Maestro Giuseppe ha individuato una possibile “location”: occasione ghiotta per uscire dal cementificio milanese, stare un po’ all’aria aperta e … mangiare e bere tra amici !!
Ma cos’è “La Notte del Guerriero” ?
“La Notte del Guerriero” è anzitutto un’occasione per mettersi alla prova e, perciò, in quanto momento formativo dell’individuo, comporta anche un essere in un certo modo, con una certa personale identità. Poi, in quanto pratica di Arti Marziali, per le sue specifiche finalità operative, comprende anche un saper fare, è cioè arte e mestiere, abilità operativa, competenza fisicoemotiva e androgica.
Se il campo dell’Arte è saper stare nei conflitti ed il “guerriero”, dunque, colui che lo abita, ciò comporta anche saper comunicare e relazionarsi tra gli esseri umani, ovvero apertura e disponibilità a tutte le possibilità comunicative ed espressive, senza preconcetti ed  esclusioni di sorta, assumendosi in prima persona la responsabilità dell’agire / interagire.
Tutto questo, nello scorrere della notte, distesa di buio e silenzio. Le stelle e le nuvole, i piedi a calpestare l’erba mentre il silenzio ascolta il respirare delle figure informi attorno a noi.  Ci abbandoniamo alla notte, che non ha orizzonti definiti né un tempo dato e scandito.
Portiamo pugni e calci. Incrociamo mani e braccia. Impugniamo l’acciaio corto del coltello e l’acciaio lungo e mostruosamente assassino del Katana . Respiriamo profondo.  Insieme. Ognuno solo con i suoi Demoni e la sua Ombra. Tutti insieme con un unico cuore danzante e guerriero: clan di contemporanei samurai alla riscoperta del proprio animo adulto, consapevole e ardito. “Guerrieri di pace”.
Il Maestro Giuseppe e Monica, con accanto Donatella, discutono di prezzi e logistica. Io mi allontano con Lupo, tra il fango della cascina, l’errare delle caprette, lo schiamazzare di bambini e famiglie.
Maggio sarà presto alle porte e, con lui, l’appuntamento de “La Notte del Guerriero”. Da non perdere, per cuori impavidi e sorridenti, per testare di sé  e della propria forza gentile, per condividere emozioni.

“Solo chi si si conosce a fondo ed è libero dai desideri non lascerà scoperto alcun punto debole nel quale lo si possa colpire. Non lo si può spezzare con la violenza, non lo si può mettere in movimento attraverso i desideri e non lo si può ingannare con un trucco”

(Issai Chozanshi)






lunedì 10 febbraio 2014

Sono fuori posto

“Il bambino con i chiodi negli occhi
piantò il suo alberello d’alluminio
Ma cresceva di sbieco
perché lui era cieco”
(T. Burton)

Sono io “fuori posto”.
Fuori posto quando vedo quattro incensati e strapagati giudici musicali sciorinare aggettivi eclatanti, superlativi, roboanti, ad esaltare le vocine acerbe e monotone di un paio di ragazzotte. Fuori posto perché mi chiedo allora su quale sconosciuto pianeta, ignoto ai quattro giudici, abbiano mai cantato Janis Joplin o Dee Dee Bridgewater. Ovvero, quali aggettivi dovrebbero inventarsi, di paragone, per esaltare queste due voci.
istoke photo
Sono io fuori posto quando guardo attonito le frotte di variopinti sciatori e snowborders invadere le nevi della montagna per il capriccio, il gioco dello scendere e risalire, scendere e risalire, gestualità ossessiva e compulsiva, che sia goffa nell’incedere o infarcita da spettacolari acrobazie circensi.
Penso alle riflessioni di Julius Evola, alla sacralità della montagna, alla forza saggia della natura. Di contro al caotico brulicare di omini coloratissimi, impigiamate bertucce da neve, che consumano di sé, del proprio tempo. Lo fanno violando e smerdando il silenzio forte e saggio della montagna, della neve immacolata (quando c’è e non è, invece, materiale chimico, finto, steso a supplire una montagna parca nell’ingravidarsi per il solo piacere degli omuncoli), per puro passatempo.
Sono fuori posto quando, restando nel campo delle arti marziali e del combattimento in genere, leggo sui forum o sui social network, di quel praticante che chiede, pretende ( lui paga !!) un insegnamento logico e preciso e dettagliato: dalla A alla Z. Sorta di fragile Narciso alla disperata e sciocca ricerca di un “insegnamento” che gli risparmi la fatica, il rischio di insuccesso nell’apprendere.
il barone di Munchausen
Posso dire, facendo del campo marziale metonimia di un più vasto campo educativo, che questi chiude gli occhi ( e il cervello !!) di fronte al fatto che  ogni proposta educativa, formativa non può pretendere  di evitare al figlio / allievo l’incontro / conflitto con il reale contraddittorio ed incerto dell’esistere, della sua ingovernabilità assoluta. Mica stiamo parlando delle istruzioni per montare un mobile Ikea !! Imparare, fare esperienza, è esporsi al rischio della contingenza !!
Ma sono io quello fuori posto.
Non i critici che mescolano reprimende sarcastiche a sproloqui elogiativi dal vago sentore “Munchauseniano”; non i minuscoli e prepotenti violatori della natura, sprezzantemente ignoranti del fatto che “la montagna insegna il silenzio, disabitua dalla chiacchera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni” (J. Evola); non il praticante “Narciso”, sorta di “idolo – bambino” che pretende che Arte e comunicazione si modellino attorno al suo volere capriccioso.

“Perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della libertà ?”
(B. Spinoza)






lunedì 3 febbraio 2014

Tracce di senso

“I nostri figli sono nel tempo di una libertà di massa nella quale l’isolamento cresce esponenzialmente insieme al conformismo. La loro responsabilità cresce precocemente, ma sempre più raramente possono incontrare negli adulti incarnazioni credibili di cosa significa essere responsabili”
(M. Recalcati)

Schegge di tristezza, lembi di sradicamento.
Esco da casa di mia madre: tra pochi giorni la ricovereremo in una casa di riposo. Un’altra pagina  voltata. Un appartamento, quello che mi ha visto bambino, poi adolescente, poi … quello in cui sono tornato uscendo dalle avvilenti macerie del mio primo matrimonio; quello dei ricordi dolci dell’infanzia e dei ricordi bruschi e amari dell’adolescenza scapestrata e violenta, verrà cancellato. Capiterà che io passi davanti a quella casa, ma mi sarà vietato entrarci. Altri inquilini, altri mobili, altre vite e passioni. Niente per me e di me. Niente più. Mai più. E mia madre in una casa di riposo a veder scivolare tra le mani vecchie  gli ultimi anni di una vita; donna minuta, malata, la cui memoria sempre più spesso vaga tra le nebbie di un mondo altro, confuso, stonato.
Giorni intensi, questi.
Questi  in cui ho visto “The grey”, film di forte impatto emotivo. Tra lupi, oscure e feroci  presenze dentro  ognuno di noi e che mi rimandano al bellissimo “Il richiamo della foresta”, libro per ragazzi che dovrebbe invece stare sul comodino di ogni adulto maschio. Tra un cacciatore, un predatore uomo la cui preda finale è se stesso, in un culmine d’amore e tenerezza verso la donna che gli è accanto e di maschio altruismo verso i compagni di disavventura.
Sullo sfondo, l’ululato del lupo.
Questi in cui, in un casolare tra le colline bergamasche, ho guidato un gruppo di maschi a sentirsi branco, a riconoscere le reciproche differenze come risorsa per essere maschi insieme. Come risorsa per fare gruppo, per “cacciare” insieme. Li ho condotti, mano nella mano, tra le spire delle corporeità fisico emotiva, della motricità intelligente ed efficace che attinge al sapere “dentro”.
Danzare, incontrare e scontrarsi, annusare un’anatomia fatta di carne, respiri ed esperienza invece che di tavole sinottiche e saperi astratti. Li ho portati ad incontrare l’anima – le Gru: saper chiedere, saper mostrare la vulnerabilità come forza dolce. Distendere le ali nel volo accettando l’inevitabile ritorno a terra, condizione, quest’ultima, necessaria per poi poter riprendere il volo.
Dodici uomini adulti che si stanno cercando come maschi consapevoli ed auto diretti in un percorso di terapia intensa.
Con loro, Giovanni, che mi ha accompagnato nell’impresa. Insieme, ora che il buio della sera è diventato il padrone assoluto, lasciamo il casolare, le colline gonfie, il silenzio delle ombre immobili, per tornare nell’affollato deserto di cemento della nostra Milano.
Questo di giorno, in cui osservo, a troneggiare sul Katanakake, “Lupo di Settembre” e “Lama Danzante”. L’acciaio che dona la morte.
Sì, è Domenica, sono solo in casa. Perché Monica e Lupo sono a Bassano del Grappa, certo, ma sono solo di una solitudine dentro, che sa di stanchezza e disorientamento. Mentre mastico schegge di tristezza, lembi di sradicamento.
E mi assumo la responsabilità di questo mio vivere, per quanto lo sarà.

“A noi dispersi dal tempo
non è rimasto altro che
una traccia
lasciataci dalla natura.
A noi – navigatori solitari –
non è concessa
la stella dei ricordi,
solo un lieve palpito all’imbrunire.
Lasciate che il mio cuore
non gema
per le piaghe infette
da cui è ricoperto.
Ridete pure della mia solitudine
perché a noi, dispersi dal tempo,
non è concesso altro che
il turpiloquio”
(N. Fanizzi)



Le immagini, a parte quella raffigurante i miei katana, mostrano opere di Art Brut.