lunedì 18 febbraio 2019

Green book




Dopo una serata “in solitario” a Teatro, dove ho ammirato Play, il vivace spettacolo di danza ed acrobazie dei Kataklò (1), eccomi con Monica al cinema per il tanto pubblicizzato
Green book

La pellicola  prende il suo titolo dalla guida automobilistica, chiamata appunto Green Book, dove erano elencati gli alberghi e i ristoranti nei quali potevano avere accesso le persone di colore.
Siamo negli anni ’60 U.S.A., gli anni della segregazione razziale e dei primi tentativi di uscirne.
E’ un film ispirato ad una storia vera, ben equilibrato, con un’ottima regia e degli attori all’altezza, il che permette una ricostruzione fedele e accurata del contesto sociale di quegli anni.
Un film sempre in equilibrio tra humour e pathos, godibile dal primo all’ultimo minuto.

La trama, sostanzialmente, è un processo di avvicinamento e riconoscimento reciproco tra due uomini / due mondi assai diversi tra di loro, dove i protagonisti, poco a poco, mettono in discussione i pregiudizi su cui avevano basato la visione di se stessi e del mondo, giungendo, nell’immancabile happy end finale, ad una superiore consapevolezza.

Quella di Green Book non è una favola in quanto si tratta di eventi veri, ma, durante la visione della pellicola, si percepisce una specie di magia che la attraversa, un sentore di buoni sentimenti che inevitabilmente trionferanno.
Un buonissimo sapore che funge da artefice magico, demiurgo creatore capace di epifania, visione, illusione.

Se, senza dubbio, questa visione ottimistica, cosi ben descritta nel film, è quella che in questo momento è cruciale per costruire un mondo migliore per tutti, per affrontare le barriere di separazione ed odio che, anche nella nostra Italia, contribuiscono a creare quel clima violento ed ottuso simile a quello che fa da sfondo al film, non posso non pensare che, tolto il godimento per la bella pellicola e il mio personale auspicio perché tutto, anche da noi, si risolva in un disneyano happy end, la questione reale, quella cruda e veritiera, sia ben più complessa ed aspra.

D’altronde Green book non credo avesse altri proponimenti che quelli di un buon intrattenimento, con una morale tipicamente hollywodiana o, per dirla con la nostra cultura, alla  volemose bene”.
Sono convinto che solo sperimentando e costruendo una visione d’insieme, potremo tarare il nostro modo di pensare in un mondo ogni giorno sempre più globalizzato e interdipendente, dove il nostro personale stare bene riesca, in qualche modo, a sopravvivere dentro scelte prese lontano da noi e sopra di noi.
Ma questo sarà possibile solo tenendosi lontani da quella retorica umanitaria che è una sorta di catechismo morale, una vera e propria ideologia del “bene” che va invece rimessa in discussione in ogni campo.

Personalmente, come scrive anche Eduardo Zarelli, mi pongo ben equidistante da quella sinistra che, perdendo la ragione sociale per identificarsi nei diritti delle minoranze, eleva lo sradicamento universale individualistico a condizione moderna del liberalismo, come da quella destra che, identificandosi nello strapotere del mercato, porta con sé “l’esercito di riserva del capitale (cit. Karl Marx)  e la delocalizzazione dello sfruttamento del lavoro. Entrambe ci allontanano dal tentativo di risolvere i conflitti nell’effettivo rispetto della dignità della persona e delle collettività, accettando anche là dove il conflitto sia insanabile.
«L’umanità diventa più vicina e unita, mentre le differenze nelle condizioni delle diverse società si allargano. In queste circostanze, la prossimità, invece di promuovere l’unità, origina tensioni, mosse da un nuovo contesto di congestione globale»  scriveva Zbigniew Brzezinski,  politologo USA.

Ma, in effetti, questo, al regista Peter Farrelly e a chi lo ha prodotto, non credo interessasse più di tanto: hanno fatto un bel film, che ha incassato soldi e premi.
Ben fatto!!

1. Anche in questa occasione ho sperimentato, da semplice spettatore, diversi approcci corporei allo spettacolo. In particolare, ho lavorato sulla respirazione traendone sensazioni interessanti e mutevoli proprio in ragione del come andavo a respirare.
Ammetto di non comprendere come, dopo quanto ho scritto nel mio post su Bansky, in particolare la “Parte 2”, nessuno si sia fatto avanti per un chiarimento, un confronto. Eppure ognuno di noi è corpo 24 ore al giorno, sempre!! Eppure sentirsi consapevolmente corpo, sé fisicoemotivo, è un tratto distintivo mio e della Scuola che ho fondato. Eppure questo approccio a 360 gradi è totalmente innovativo e condiviso da una sparuta minoranza di ricercatori a fronte dell’ignoranza dilagante. Nessuna curiosità in materia? Boh?!

mercoledì 13 febbraio 2019

Costruirsi corpo




La mia mente nel profondo si sta svegliando, abbandonando ogni vuoto, e ogni passo, ogni spostamento, muove un terreno che parla.
Dal buio totale, dal silenzio rumoroso di un pensiero che si fa libero, mi accorgo di precipitare tra le pagine bianche di una scrittura incerta prima, poi fluida e potente.   

E’ la mia storia ora che vado a raccontare.
Per farlo mi affido ad un corpo, un sé fisicoemotivo, che va a costruirsi.

Sentire il proprio peso, sentirsi stabili.
Lasciarsi andare, sprofondare, affidandosi ad un valido sostegno: il pavimento, che è elemento Terra.
Solo così potrai stare in piedi, spostare il peso da una gamba all’altra, investire di te lo spazio: il peso del corpo obbedisce alla legge di gravità, sempre.
Allora lascia ogni tensione e lasciati andare. Ne sei capace?

Aprirsi.
Aprirsi nelle fasce elastiche e tra le articolazioni, aprirsi nel respirare e nelle pause tra una inspirazione ed una espirazione, aprirsi nell’ascolto delle emozioni, delle “resistenze” che ti incollano al passato, ai gesti ripetuti, al “copione” introitato, come nell’ascolto  delle aspirazioni al nuovo, alla curiosità dello straordinario che, piano piano, si disvela nell’ordinario.

Cogliere che il flusso del movimento è influenzato
dalla successione in cui le parti del corpo si mettono in moto.
Allora riconoscere le diverse componenti di sé e definirle così che ogni parte, ogni componente, abbia una funzione e si colleghi alle altre formando armoniosamente un tutto che, come sappiamo, è ben altro e oltre la somma delle singole parti. Un tutto in cui, per esempio, “colpire” sia energico e rapido, mentre “spingere” sia contenuto e sia possibile fermarlo in qualsiasi momento.

Ecco come sia importante avere un centro.
Un centro di forze e sforzi che sia anche centro di sapiente attesa. E’ dal centro, dal ventre, che si irradiano tutti i movimenti, attraverso un tronco in continuo mutamento tra estensione, contrazione, flessione, slancio.
Lì, nel centro, non stagna alcuna imposizione, vi è la totale libertà di prendere qualsivoglia direzione; lì, nel centro, che è ikigai kan, ovvero “sentire la spinta vitale”, l’esuberante vitalità e l’erotismo come amore, adesione al vivere. Ed è lì, nel centro, che interagiscono, a saperli cogliere, il fuori ed il dentro con la trasformazione del mondo esterno per essere interiorizzato, per così dire assimilato tanto dal cibo come dall’ossigeno, dalle emos – azioni come da ogni incontro: per questo è luogo reale, non solo simbolico, di filtraggio e mediazione, di opposizione o accettazione. Per questo non lotti con le braccia ma affidandoti al ventre!!

Questo è solo l’inizio per costruirsi corpo consapevole; altri temi, altri terreni saranno da affrontare perché il viaggio sia davvero pieno, tra l’identificazione dei pieni e dei vuoti, del volume; la scansione di pause e ritmi; la capacità di immergersi nella reverie, laddove tu sia l’agire e l’immagine di questo agire, ed altro ancora.

Tra cui, fondamentale, l’incontro con l’altro, le sue percezioni ed il suo agire, in una relazione la cui conflittualità sia un dono verso la consapevolezza, verso il “Conosci te stesso”:
Senza l’altro, solo vacui soliloqui in cui illudersi di sapere e capire, illudersi di essere.
Senza il rispetto verso l’altro, senza la comprensione dell’altro, senza  itadakimasu, che è “ricevere”, accogliere l’atro, solo prevaricazione, solo sordido sfogatoio per giochi di mano tra repressi.

Per questo l’importanza del confronto come proposto qui allo Spirito Ribelle ZNKR, della pratica marziale tra Tai Chi Chuan, Wing Chun e il fenomenale Kenpo Taiki Ken.
E mente pratico, a volte nella sala semibuia altre tra i giardini di una Milano frenetica che solo li lambisce, a volte tra gli odori di casa altre perso in una natura ancora selvatica, chiudo gli occhi, mi ritraggo dentro di me per meglio ascoltare quel che pulsa fuori di me.
I contorni prendono una forma mai fissa, dentro di me qualcosa si è svuotato, qualcosa si è riempito, in un gioco tra honne, i “sentimenti autentici” e tatemael’apparenza”, un gioco impossibile da vedere con gli occhi ma lucido, chiaro, nitido, danzando la danza del guerriero Taiki Ken.  











sabato 2 febbraio 2019

Bansky a Milano






Usciamo dal Mudec, alle spalle la mostra dedicata a Bansky,

A visual protest. The art of Bansky

il misterioso graffitaro britannico, ormai di fama internazionale.

Parte 1

Le domande di Monica, preziosa compagna di viaggio, si susseguono rapide.
Così, alla rinfusa, ecco quel che le rispondo:

- Tutto questo suo lavoro contro la violenza, contro la guerra, è, dal lato epistemologico (1), strutturalmente, vano perché, come già scrissi nel commentare “Gli Uccelli” di Aristofane, la violenza, che è espressione del confliggere, è parte ineliminabile del tutto: nulla esiste senza maschile / femminile, nulla esiste senza una componente conflittuale. Lode a lui che si batte per una parte, ma non cadiamo nell’errore di credere in un mondo, in una società priva di violenza e conflitti. Poi, certamente, si tratta di dosare le parti la cui somma dà sempre un tutto diverso dalle parti stesse. L’esempio del cappuccino calza a pennello (2).

- Il suo stile è ormai non più sorprendente: crea un’immagine e, dentro l’immagine stessa o nello sfondo, inserisce un elemento dissonante, a volte critico a volte disturbante a volte semplicemente carico di “nonsense”.
Molto provocatorio e molto bravo lui nelle sue intense realizzazioni ma, prima di lui ci furono altri, per esempio un tal René Magritte (1898 – 1967), che “voleva  che i suoi quadri provocassero nell’osservatore una frattura rispetto all’insieme delle nostre abitudini mentali per portarlo ad interrogarsi sulla natura della realtà che lo circonda senza affidarsi agli automatismi dati dall’esperienza” (G. Favero in  “La chiave di Sophia” n.5 anno III).

- Tenerezza mi ha suscito la citazione di Majakowsky per un’arte libera che pervada, che sia apposta, su strade, palazzi …. e … vestiti. Ma guarda un po’ quante migliaia e milioni di persone girano indossando maglie e cappotti e pantaloni su cui campeggia vistosamente e sfacciatamente “l’arte” di un logo, di un brand!!!!!!!!!!!! Povero il rivoluzionario Majakowsky, quante volte si sarà già rivoltato nella tomba nel vedere come la forza subdola del capitalismo abbia impoverito le menti del gregge belante, nel vedere il suo inno alla libertà, le sue invettive antiautoritarie, stravolti ed utilizzati da quegli stessi potenti che lui combatteva con milioni di gonzi felici, addirittura orgogliosi, di indossare appositamente quei capi d’abbigliamento in cui la firma, il brand, sia immediatamente e platealmente visibile.

- Infine, che senso ha avuto spendere soldi e recarmi in un museo a vedere le opere di un artista che boccia implacabilmente ogni raccolta di opere, ogni luogo deputato a mostrarle, che si considera un integerrimo detrattore della mercificazione dell’arte e del collezionismo, che rifiuta ogni esposizione museale?
Non è che, recandomi al Mudec a vedere una raccolta di suoi lavori, sia stato come dare del “pirla” a lui e, ohibò, pure a me?

Parte 2

Per altro, la visita al Mudec 
è stata l’occasione per sperimentare
un modo di relazionarmi alle opere artistiche
affidandomi consapevolmente al mio essere corpo, 
alla mia corporeità.

Mi sembrava davvero giunto il momento per me, che sono un convinto sostenitore dell’uomo come individuo fisicoemotivo, del corpo come “matrice di segni”, io che lavoro sull’osservazione dei comportamenti psicosensomotori e sulla lettura delle ‘tracce espressive’, di
affacciarmi su delle opere d’arte  attraverso me corpo.

Sono stati semplici gesti, primi approcci di una pratica che avrò da sperimentare più e più volte e che, ne sono sicuro, sarà sempre in grado di sorprendermi nel suo evolversi con me, con me individuo necessariamente in sintonia e sinfonia con gli altri esseri viventi e con lo scorrere del tempo che influisce su cosa e come io sia.
Un ponte, una relazione tra essere, osservare, stare nel corpo in cui l’avvicinarsi ad un’opera d’are sia anche un affondare nei meandri della mia corporeità.
Una Sinestesia (3), che è capacità innata, involontaria e inestinguibile in tutti gli esseri umani, di vivere simultaneamente diverse sensazioni alla stimolazione di una qualunque di esse, quanto anche dispositivo psicofisiologico con cui una qualsiasi rappresentazione sensoriale può collegarsi a una data emozione attraverso altre rappresentazioni sensoriali.

Allora una volta provo, tento, piccoli gesti, piccole intenzionali differenze posturali, tra mani rilasciate e aperte con i palmi rivolti in basso oppure braccia conserte davanti a sé; peso ad affondare nel terreno quanto, invece, l’oscillare avanti ed indietro.
Un’altra lascio che sia quanto vedo consapevolmente con gli occhi ad influenzare il mio tono muscolare, il ritmo del mio respirare.

Scopro e riscopro come la struttura delle tensioni muscolari condizioni i movimenti, il portamento e i tratti momentanei del mio umore; faccio della postura un indizio di un certo stato emotonico.
Insomma, ho provato, in un rapporto sano che come tale è sempre di influenza reciproca la cui quantità / qualità sempre varia, ad accostarmi alle opere di Bansky fondando tale approccio sul mio bagaglio di esperienza e pratica corporea, quella che, in vario modo, mi fa operare nella veste di Body Counselor (4) e praticante docente - facilitatore di pratiche del combattimento, di Arti Marziali.
Inevitabile per chi, come me, sia convinto
dell’importanza della consapevolezza nella propria fisicità in ogni momento,
in ogni gesto ed incontro della vita quotidiana;
che di questa consapevolezza faccia un percorso
di individuazione, crescita e trasformazione.
Per sapere sempre meglio di me e di come io stia al mondo assumendomene la responsabilità, individuo adulto autodiretto ed aperto, non servo, ai Misteri.


1. Epistemologia: “Il termine, coniato dal filosofo scozzese J.F. Ferrier, designa quella parte della gnoseologia che studia i fondamenti, la validità, i limiti della conoscenza scientifica ( episteme). Nei paesi anglosassoni il termine è prevalentemente usato per indicare la teoria della conoscenza o gnoseologia.”

2. Cappuccino: Latte e caffè danno origine al cappuccino. Una volta tale, è impossibile separarli di nuovo. Il diverso dosaggio dell’uno e dell’altro, invece, cambia il sapore del cappuccino stesso.

3. Sinestesia: “In medicina e psicologia, fenomeno per cui alla stimolazione di un senso corrisponde la percezione da parte di più sensi distinti; figura retorica che consiste nell'associazione di parole relative a sfere sensoriali diverse” (in https://unaparolaalgiorno.it/)

4. Body counselor: Il counselor, professione diffusa nel mondo anglosassone e solo da una dozzina d’anni operante anche in Italia, è un esperto di comunicazione e relazione in grado di facilitare un percorso di autoconsapevolezza nel cliente, affinché trovi dentro di sé le risorse per aiutarsi affrontando momenti di crisi e difficoltà sia personale che relazionale, quanto problemi specifici (claustrofobia, tabagismo, aerofobia ecc.). Il “body counselor”, nella relazione col cliente, si avvale principalmente di un accesso corporeo che fa uso del contatto fisico, della respirazione, del rilassamento / rilasciamento muscolare, di pratiche vivificanti.


Mudec, Milano
21.11.2018   14.04.2019