martedì 14 maggio 2013

Andragogia marziale e non solo



"Ricordati che quando punti l'indice verso una persona, tre dita della mano puntano su di te"
(proverbio indiano)

Oggi scriverò di didattica (come insegnare / imparare ) ed andragogia (l’apprendimento negli adulti).
Ne scriverò evidenziandone tre caratteristiche proprie della nostra Scuola.
Partiamo da un dato, conosciuto secoli or sono nella cultura taoista e riconosciuto oggi da neuroscienze e psiconeuroendocrinoimmunologia.
Cioè che l’uomo, composto da più tratti psicologici in conflitto e combutta tra di loro (1), si ritrova poi uno, indivisibile, il cui corpo è uno spazio, un luogo dove il pensiero pervade ogni organo, ogni apparato, ogni scambio cellulare. Per identico principio, vale anche l’opposto: tutte le molecole e gli scambi chimici, e di conseguenza energetici, che si generano nel nostro corpo, danno forma al pensiero e si evolvono in una forma mentale.
Un complesso fisicoemotivo di cui ho già ampiamente scritto in altre occasioni, sia sul blog che sulle pagine di SHIRO, il nostro periodico.
Allora, la nostra didattica e la nostra andragogia, quelle con cui affrontiamo il percorso marziale, si sostanziano di
Una vulnerabilità (2) interna
Partire da sé, da ciò che sappiamo come da ciò che, strada facendo, scopriamo di … non sapere. Aprirsi alle proprie risorse interne, accettare e ri – conoscere pulsioni ed emozioni per farne strumento di apprendimento e di relazione con l’ambiente. Il praticante non si plasma su ciò che viene da fuori, non ripete. Questi relaziona sé e il contenuto propostogli non come accumulazione, perché nulla del combattere ( come di ogni agire primordiale ) gli è del tutto nuovo, ma come una specie di cassa di risonanza interna.
Una dimensione sostenibile
Attraverso lo stress del combattere, il praticante scopre le proprie risorse. Ovvero la formazione marziale come attivazione e potenziamento di quanto già è in lui a partire dagli stimoli interni (emos – azioni, cioè “moti d’animo propulsori di qualunque movimento, compreso quello di contrattura frenante o difensiva”. S.Guerra Lisi & G. Stefani: Il corpo matrice di segni ) ed esterni ( le situazioni motorie a solo, in coppia e di gruppo, in cui viene coinvolto dal Sensei). Egli accorda le proprie risorse fisicoemotive con gli accadimenti marziali della formazione,  che divengono occasione di ulteriore conoscenza e rafforzamento personale. Un percorso di apprendimento e crescita che, per dare i suoi frutti, deve essere sostenibile dal praticante, ovvero fonte di eustress ( lo stress “buono”) e non di frustrazione, fonte di cadute in cui gli sia sempre possibile rialzarsi e non di cadute nel vuoto o di KO risolutivi della sua autostima: “Dentro un ring o fuori non c'è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra”. Mohamed Ali)
Una corrispondenza relazionale
Ovvero il Sensei, “colui che è nato prima”, è guida alla formazione, facilitatore sulla via dell’apprendimento e non Maestro, ovvero unico depositario del sapere che, dall’alto dello stesso, dispensa agli allievi.
Con lui, opera il gruppo, luogo insieme di accoglienza (nessuno giudica nessuno) e regressione ( tutti lavorano sulle pulsioni, sul primitivo che sonnecchia in ognuno di noi).
Nel gruppo vige:
la risonanza, laddove il vissuto di uno risuona dentro l’altro, stimolando dimensioni e conflitti che ognuno sperimenta in modo personale, ma dietro induzione gruppale;
il rispecchiamento, laddove ognuno guarda gli altri per vedere se stesso, ovvero sugli altri mette scene del suo mondo interno per poterle vedere e ri-conoscere. Scene che il gruppo gli rimanda ogni volta reinterpretate dal gruppo stesso.

Il motore della pratica marziale, anche e soprattutto nei suoi aspetti terapeutici (3) di individuazione e crescita / consolidamento del sé, è la relazione: i calci ed i pugni, le bastonate e le coltellate, i giochi di coppia,  sono in primo luogo il modo di costruire le condizioni perché possa esprimersi in modo produttivo la capacità creativa del singolo nel gruppo.

Il metodo di apprendimento è la formulazione di domande pratiche, di koan zen fisicoemotivi, che inducano il praticante ad attingere alle sue risorse personali, alle sue energie istintuali, per risolvere le situazioni di lotta. Con ciò imparando a conoscere ed accettare le sue parti Ombra (ovvero quei sentimenti e ed emozioni repressi e/o rimossi da ognuno di noi in quanto ritenuti brutti, cattivi, socialmente non accettati; dunque anche l'insieme delle funzioni e degli atteggiamenti non sviluppati della personalità )  e a formarsi adulto equilibrato e coraggioso.

Imparare a lottare nel Dojo come metafora e metonimia del confliggere quotidiano. La formazione marziale per saper affrontare le relazioni nel lavoro, in famiglia, interpretandone le difficoltà non come un ostacolo da abbattere o da cui fuggire, un conflitto da risolvere, ma un’occasione di crescita e trasformazione. Questo proprio grazie a quegli stessi aspetti conflittuali che, in realtà, … arricchiscono le relazioni!!


1.       Quante personalità si aggirano nella psiche di un individuo ? E come fanno a stare insieme ? Quanto forti sono le tendenze all’aggregazione tra queste diverse parti e quanto quelle alla dissociazione, alla separazione ?” (C. Risé: ‘Diventa te stesso’).
2.       Sul tema della vulnerabilità, rinvio al pensiero di Brené Brown.
3.       Terapia marziale ( da non confondersi con la medicale “terapia del ferro” ) è da intendersi come pratica del confliggere fisicoemotivo, del combattimento corpo a corpo, quale percorso di individuazione ( “L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale” C.G.Jung ) e potere personale, di crescita adulta ed autodiretta, di capacità nel sostenere i conflitti relazionali quotidiani.

Post illustrato con immagini del Raduno Kenpo adulti di Sabato 11 Maggio.






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