Mercoledì 13
REP,
Pedagogia Libertaria e Arti Marziali:
Un
percorso di individuazione
Pratico, giorni di rilassamento
nell’accogliente Bassano del Grappa.
Pratico, spesso nel cortile di casa, il cortile perché
l’aggeggio medicale che mi accompagna ormai da mesi mi impedisce di inforcare
la bicicletta e raggiungere le rive del fiume Brenta. A volte, a piedi, vado
sul vicino monte Crocetta: Da lì, verde, arbusti ed alberi tutt’intorno, posso
vedere sotto di me la piana su cui si stende Bassano; sopra, il cielo azzurro è
solcato dal volo di alcuni rapaci, sono le poiane, da anni tornate a dominare
incontrastate. Umani raramente ne incrocio perché il ritrovo per alcool,
chiacchiere e sfoggio di corpi abbronzati e vestiti ‘firmati’ sta parecchie
centinaia di metri più lontano.
Pratico Chi Kung / Kiko, forma di Tai
Chi Chuan, Peng Lu Ji Han, il passo ed i primi animali del Pa Kwa
/ Hakkeshou, Neri e Yuri del Taiki
Ken, alcune ‘figure’ e giochi di mano del Te di Okinawa e
del Kali filippino. Non manca lo spazio per una ricca passata di shadow
boxing.
Pratico e ripenso al lungo percorso di formazione marziale
e, più in generale, di formazione corporea tra Feldenkrais, Tragger,
Danza Sensibile, Expression Primitive, Danzaterapia e più recentemente Body
Mind Centering, Movimento Generalista e Laban Movement Analysis.
“Nessun
modello, a mio parere, ha validità descrittiva generale e metacontestuale. Ogni
modello è culturalmente determinato: ha senso all’interno delle condizioni
(antropologiche, culturali, sociologiche, ecc.) in cui è nato, in riferimento
ai bisogni ed alle aspettative della comunità scientifica che lo ha formulato”.
(V. Bellia)
Pratico e oggi, pausa assolata, le montagne alle spalle ed
il cielo che si stende uniforme su case e strade, mi ritrovo ad annotare alcune
riflessioni, a tentare una minima costruzione teorica da offrire a chi mi legge
e, magari, sarà incuriosito di conoscere questo mio modo di condividere il
sapere, di accompagnare i praticanti assolutamente antagonista, anzi,
alternativo a quanto si fa in tutti gli altri Dojo, Kwoon,
palestre: Dallo ZNKR allo Spirito Ribelle, uguali a nessuno.
Ne ho già scritto più volte, a partire proprio
dall’esperienza concreta, oggi provo a formulare un breve schema teorico:
Chissà se qualcuno avrà da dialogare sul tema!!!
“Per
esempio, la maggior parte delle pratiche didattiche si fonda sull’assunto che
lo studente è fondamentalmente un ricevitore, che l’oggetto (“la materia”) da
cui si origina lo stimolo è importantissimo, e che lo studente non ha altra
scelta se non vedere e capire lo stimolo così come esso “è”. Adesso noi
sappiamo che tale assunto è falso”. (N. Postman)
Quanto sopra, non solo non aiuta un autentico apprendimento
globale, olistico, dell’individuo a partire dalla pratica dell’arte intrapresa,
ma, ampliando l’orizzonte, può condurlo sulla via della supina accettazione
dell’esistente come dato di fatto incontrovertibile ed assolutamente certo
deresponsabilizzandolo in tutte le sue scelte e privandolo della consapevolezza
delle conseguenze. Nei casi più fragili crea le condizioni per un malessere
interno le cui manifestazioni esterne saranno atteggiamenti depressivi o, al
contrario, eccessi di hỳbris, ovvero insolenza, tracotanza.
“Nel conflitto tra istinto e principi
morali, tra ego e mondo esterno, l'organismo è costretto a «corazzarsi» tanto
contro l'istinto quanto contro il mondo circostante; è una rigida corazza che
si risolve inevitabilmente in una limitazione delle facoltà vitali e di cui
soffre la maggioranza degli uomini: è come se tra loro e la vita si innalzasse
un muro. È in questa corazza che risiede la ragione chiave della solitudine di
tanti uomini in seno alla collettività” (W. Reich, medico, psichiatra e
psicoanalista)
La Pedagogia Libertaria,
secondo tassello del mio impianto teorico, scartando l’autorità costrittiva in
cui imperano un Maestro / Sifu unico detentore del sapere ed una
materia di studio immutabile e sclerotizzata nei suoi dogmi, accompagna invece
ad un apprendimento costruito sull’autonomia, la curiosità e la responsabilità
personale. In questo contesto, le Arti Marziali non si pongono come un sistema
gerarchico di premi e punizioni /promozioni e bocciature, ma un’arena dove il
praticante impara e cresce secondo il proprio ritmo, esplora il proprio stile e
costruisce il proprio sapere corporeo.
“Quando
hai imparato qualcosa, lo devi modificare progressivamente fino a farlo
diventare a modo tuo. Chi segue a occhi
chiusi è morto. Solo i ribelli possono raggiungere qualcosa” (Maestro
Liang Dongcai, meglio conosciuto come T.T. Liang)
“E poi
un maestro mi ha detto, come Lou, che il Chi è energia. E ha detto: ‘La forma?
Puoi fare quello che ti pare!’” (Yongey Mingyur Rinpoche,
maestro di buddismo tibetano e insegnante di meditazione)
Nei decenni, ho costruito, a partire dalla mia pratica individuale e da quella come Sensei, come facilitatore di gruppi, un clan, lo Spirito Ribelle, dove non ci sono cinture da conquistare e tecniche da memorizzare, ma esperienze da vivere. Dove io sono quello ‘nato prima’ (Sensei), non un giudice, e come tale esempio vivente per chiunque, purché sinceramente appassionato, che il ‘bosco’ (1) può essere attraversato, che ognuno può conoscersi, crescere e migliorarsi davvero non solo a parole o slogan, non solo e non certamente perché pratica Kenpo, Karate, Judo, Aikido, Tai Chi Chuan ecc. non solo e non certamente perché ripete forme (kata o taolu), gesti, tecniche (waza) memorizzati a dovere.
In questo ambiente Spirito Ribelle, le Arti Marziali sono
una forma di educazione libertaria: “Il corpo è il libro, il movimento è
la lingua e la libertà è il metodo”. (anonimo).
- La pratica, da solo, in coppia e in gruppo, è ascolto di sè e della relazione con ciò che vive fuori di sè.
- La Ricerca Eco Psico – Sociale e la Pedagogia Libertaria fondano tanto autonomia, quanto cooperazione.
Solo così le Arti Marziali
possono essere una filosofia di vita, un autentico percorso che dal Bujutsu,
la pratica del confliggere per non essere soppressi, sfocia nel Budo,
la Via della consapevolezza; possono essere autentico cammino di individuazione
e crescita umana (2).
Ben oltre la tecnica, questa è una pratica di emancipazione
personale.
1. “La foresta,
spesso identificata con il bosco, costituisce lo scenario ideale per l ‘
esperienza iniziatica e la strettamente connessa rappresentazione fiabesca: è
un luogo simbolico fortemente seducente e primigeno, contrapposto alla nostra
terra edificata, coltivata e controllata, uno spazio in cui le nostre regole,
subalterne a quelle ‘‘caotiche della natura spontanea, perdono improvvisamente
ogni valore”
(https://psicologiaeconsapevolezza.blogspot.com/2015/06/simbolismo-della-foresta.html)
2. “La cornice concettuale che abbiamo delineato mira a comprendere il movimento corporeo come un dialogo dell’io. La nostra indagine ha avuto inizio con la premessa fondamentale che l’io sia un soggetto incarnato, un dialogo e una pratica. Questa premessa è stata assunta grazie alla ricerca effettuata nei primi due capitoli, che hanno come fulcro Schütz (Vienna, 1899 – New York, 1959 è stato un filosofo e sociologo austriaco) e in particolare la sua fenomenologia del mondo sociale, che, attraverso la sua prospettiva dinamica e relazionale, posiziona l’individuo all’interno del mondo della vita quotidiana e stabilisce connessioni con gli altri e con il mondo circostante. Ne abbiamo evidenziato un correlato prima con la fenomenologia dell’alterità di Husserl (1859-1938) e, nello specifico, con la sua concezione di corpo vissuto e poi con la concezione pragmatica dell’io di Larmore (1950, filosofo statunitense); concludendo con un collegamento all’io dinamico di Arendt (1906-1975 politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense in seguito al ritiro della cittadinanza tedesca nel 1937), la cui caratteristica è la pluralità, un soggetto che realizza la sua struttura relazionale nell’azione, la quale si attua nello spazio pubblico” (https://la-filosofia.it/il-movimento-corporeo-come-dialogo/)
Lunedì 18
Esibizionisti
in vetrina:
Il
fitness come pratica narcisista
Li vedo, mi vengono incontro mostrando come un trofeo quello che io chiamo il “petto da tacchino”, pettorali gonfi a dismisura; li vedo, seduti al tavolino accanto, “manzi” dal torace voluminoso come una botte, avambraccio perennemente flesso a espandere il bicipite; le vedo, vita sottile e spalle allargate dall’ipertrofia dei deltoidi laterali che donano loro un busto androgino, addominali scolpiti nella tanto agognata tartaruga. Corpi da esibire.
Corpi tatuati, ovviamente. Potrei azzardare l’età, dato che
i tatuaggi esposti corrispondono pedissequamente alle mode succedutisi negli
anni: I cinquantenni non mancano del tribale sul polpaccio, poi, a scendere,
arrivano gli anni della frase scritta con ideogrammi asiatici (e buon per loro
se la scritta è solo un’accozzaglia di segni e non un qualche insulto!), le
strisce nere sul braccio o, di nuovo, sul polpaccio. Ora va di moda il corpo a
“banco di scuola media”: Una confusa distesa di singole parole e figure
disegnate con tratto infantile che coprono in toto la “tela corpo”. Ah, non
mancano i più elaborati e complessi colorati disegni di stampo giapponese, tra
immancabili carpe e geishe, o l'intricato diffondersi di segni e forme che
ricordano stralci di differenti esempi di “carta varese” mescolate tra di loro
da qualche mano ubriaca. Non vanno mai fuori moda le frasi motivazionali in
stile “baci Perugina” o i brandelli di poesia del tutto estrapolati dal
contesto.
E’ palpabile, è immediatamente visibile: Nel laboratorio
sociale del terzo millennio, il corpo umano non è più “tempio”, ma showroom. E
il personal trainer? Un moderno e spesso improvvisato Prometeo con licenza
"social forum”. Benvenuti nell’era della sindrome di Frankenstein,
dove il corpo non si allena: Si assembla.
La
sindrome di Frankenstein:
Anatomia
di un delirio estetico
Chi mi conosce sa della mia scarsa dimestichezza con la narrativa, essendo io un divoratore di saggi. Eppure quanto scritto sopra mi riporta drasticamente alla storia del misero Frankenstein: Victor Frankenstein, giovane scienziato ginevrino, che, spinto dall’ardore della ricerca scientifica, scopre il modo di creare la vita. Costruisce una creatura umana con pezzi di cadaveri, questa però è portatrice di violenza e mostruosità.
La sindrome di Frankenstein, letta ai giorni nostri, non è
(ancora?) una patologia clinica (1), ma una condizione culturale:
L’ossessione per la costruzione del corpo perfetto, pezzo dopo pezzo, come se
fosse un puzzle muscolare; materia inerte, assemblabile e disarticolabile a
piacere. Bicipiti da esposizione, glutei da tutorial, zigomi da filtro. Il
soggetto non si riconosce più nel proprio corpo, ma lo vive come un progetto da
migliorare, correggere, scolpire. Un corpo Korper iper investito
sul piano frivolmente estetico, che si espone in vetrina; un bene di consumo,
di reificazione e falsificazione assoggettato principalmente (ed
inconsapevolmente) ai dettami della moda e della pubblicità (2).
Il corpo diventa un Frankenstein del terzo millennio: Non
cucito con cadaveri, ma dettato dalla moda e con sogni altrui e algoritmi di gradimento.
Fitness:
La
nuova religione del narcisismo
Il fitness ormai non è più pratica di salute (anche se, come ho già spiegato più volte, dubito possa essere salutare l’esercizio fisico che viene proposto nelle varie catene di palestre), ma prestazione visiva. Non si corre per stare bene, si corre nella speranza di postare di sé immagini di un fisico magro ed asciutto. Si sollevano pesi per mostrarsi grossi ed essere notati. Il tapis roulant è diventato una passerella, lo specchio della palestra un confessionale narcisista. Il sudore? Solo se è fotogenico e testimonia della nostra verace passione per l’attività fisica.
Allenarsi è ormai un atto performativo, una coreografia di
vanità. Il corpo non si plasma tanto e solo per vivere meglio, ma per apparire
meglio. Il muscolo non è funzionale (3), è ornamentale, che se non si
potesse mostrarlo, tanto varrebbe non averlo!!
Vetrinizzazione:
Il
corpo come feed
La vetrinizzazione è il
processo per cui ogni gesto, ogni posa, ogni smorfia diventa contenuto. Il
corpo è esposto, condiviso, giudicato. Non si vive più il corpo, non si vive
più corpo Leib ma corpo Korper: Lo si espone. Il
selfie post allenamento è il nuovo certificato di esistenza. Se non hai postato
il tuo plank, hai davvero fatto plank?
La palestra è il nuovo palcoscenico di un ego turbato, dove
si recita il ruolo del “fitness influencer” anche se si è solo il protagonista
di una grottesca narrazione in leggings compressivi. Il corpo non è più mezzo,
ma fine. E il fine è sempre lo stesso: visibilità ed approvazione social.
Epilogo:
Il
corpo come algoritmo
In questo scenario, il corpo
non è più biologico, ma digitale. È un algoritmo da ottimizzare, una
bio-macchina da rendere virale. La sindrome di Frankenstein e la
vetrinizzazione del fitness sono due facce della stessa medaglia che è il rifiuto
dell’imperfezione e l’adorazione dell’apparenza: “Dietro corpi sempre più
palestrati si nasconde un io sempre più minimo, insicuro, fragile, poco
strutturato, poco critico, superficiale, come la superficie dello specchio con
cui si identifica” (A.G.A. Naccari ‘Pedagogia della corporeità’). La
conoscenza di sé e l’autodeterminazione sono goffamente associate alla forma
fisica esibita.
Ma, se ben ricordo la storia, Frankenstein, alla fine, si
rivolta contro il suo creatore. Forse, un giorno, il nostro corpo ci chiederà
indietro l’integrità e la dignità che abbiamo barattato per un filtro, per uno
sguardo di approvazione da uno sconosciuto.
1. “Tra le
conseguenze più evidenti, sul piano della patologia psichica, si può notare un
aumento dei disturbi legati a manifestazioni somatiche: disturbi
dell’alimentazione, comportamenti dismorfofobici, tendenze marcatamente
narcisistiche, depersonalizzazione somatopsichica, preoccupazione ipocondriaca
ecc.” (A.G.A. Naccari ‘Persona e Movimento. Per una pedagogia dell’incarnazione’
2. Secondo il sociologo francese Pierre Bourdieu (1930 –
2002), ciò che ci piace non è un fattore né casuale né dettato principalmente
da un gusto / scelta personale, quanto piuttosto è socialmente determinato. O,
come ci ricorda Coco Chanel (1883 – 1971), una che di moda se ne intendeva
(!!): "La moda riflette sempre i tempi in cui vive, anche se, quando i
tempi sono banali, preferiamo dimenticarlo."
3. Per le storture e le nefandezze di quanto propone il
fitness in palestra, vedasi la pagina Instagram di Raffaele Agus:
movimentoprimal.
Mercoledì 20
Teatro,
Pinocchio, Arti Marziali,
ovvero
l’elogio dell’ambiguità.
Giornata piovosa in questi
giorni di vacanze venete. Ne approfittiamo, Monica ed io, per una visita al Teatro
Olimpico di Vicenza.
Qui sfacciatamente compare il teatro come luogo dove ciò
che appare si rimescola con ciò che è; dove la finzione si stempera in verità
emotiva; dove lo stupore origina dall’ambiguità. Qui l’ambiguità è
architettonica e percettiva insieme.
Ripenso a “Pinocchio: Un
libro parallelo”, di Giorgio Manganelli. In esso, lo scambiarsi tra realtà
e apparenza è il il fondamento, riscrivendo il classico di Collodi non come
semplice fiaba ma come viaggio iniziatico. Pinocchio diviene simbolo
dell’identità fluida, della metamorfosi continua. Manganelli lo trasforma in
specchio dell’umano, dove ogni affermazione porta con sé il dubbio della
negazione, ogni fandonia cela una verità sottesa, dove il lettore è costretto a
rivedere continuamente il proprio giudizio. Nulla è come sembra, e ogni
personaggio è una soglia tra il reale e il fantastico. Come nel Teatro
Olimpico, anche qui l’illusione è momento di rivelazione.
Non
sono forse così le Arti Marziali?
Apparentemente distanti dal
teatro e dalla letteratura, ma in realtà profondamente affini. Un praticante
esperto sa che il movimento più efficace è spesso quello che inganna:
L’elusione, il vuoto che diventa pieno, la quiete che nasconde l’esplosione, il
cedere che è guadagnare spazio e tempo per premere e travolgere. Tutto è
ambiguità, è semina di dubbi. Le Arti Marziali non sono affatto tecnica, ma filosofia
incarnata. Come il Teatro (quello Olimpico di Vicenza nella sua materialità,
ma il teatro tutto, ogni teatro, nella sua funzione) e come il Pinocchio
manganelliano, esse giocano sul confine labile tra ciò che appare e ciò che è,
tra ciò che si presenta immobile e ciò che è movimento repentino, tra quella
che si mostra ottusa lentezza ed invece è profonda penetrazione al cuore.
Quando l’opponente crolla non per maggiore prestanza fisica subita, ma per
intelligenza del movimento subito, si rivela il fascino sottile e perverso,
ambiguo, dell’arte marziale. Qui, il corpo diventa narrazione, il gesto diventa
stupore.
Un
filo invisibile
Cosa unisce questi tre mondi? L’arte
dell’ambiguità. Il potere di indurre stupore volgendo la chiarezza in
mistero. Il Teatro Olimpico ci insegna che la prospettiva può essere più vera
della realtà, che l’ardita piramide di pesi pesanti è precaria come un castello
di carta; ‘Pinocchio: Un libro parallelo’ ci rivela che l’identità, ogni
identità, è una storia in perenne riscrittura. Le Arti Marziali ci ammoniscono
che la difesa della propria incolumità risiede nell’equilibrio tra patente e
latente.
In anni che anelano a risposte nette, a diffondere verità
assolute, ad emettere sentenze e giudizi perentori su tutto e tutti, questi tre
mondi ci invitano a sostare nell’incertezza. A vivere il dubbio come possibilità
creativa. A lasciarci incantare da ciò che forse non è così importante
spiegare, ma solo vivere.
L’ambiguità in queste opere non è confusione, ma pienezza
di significati. È ciò che ci costringe a guardare due e più volte, a dubitare,
a meravigliarci.
Teatro, Pinocchio, le Arti Marziali, sono
tutte forme di verità mascherata, dove lo stupore nasce proprio dal fatto che
nulla è mai solo ciò che sembra.
Ennesimo invito al motto rinascimentale “penna e spada”, al
nipponico “Bun Bu Ryodo”, al vivere appieno dentro le diverse forme
artistiche che abitano il mondo, che abitano noi. Per crescere.
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