“Le
uniche battaglie perse sono quelle che non si combattono”
(Ernesto Che Guevara)
by E_Mann |
La
parola chiave è “kung fu”, tradotto generalmente come “duro lavoro”. Da alcuni
decenni, chi sia addentro al mondo delle Arti Marziali sa che le stesse, in
lingua cinese, è più corretto chiamarle wushu e che il termine kung fu (
attribuito alle AM probabilmente ad
opera di uno dei primi preti cattolici giunti in Cina), come tale, non solo non c’azzecca ma è riferibile ad ogni
abilità raggiunta con “duro lavoro”, che si tratti di pesca o di cucito, di
affilare un coltello o cucinare un pollo.
Perché,
per me, non c’azzecca ?
Perché,
citando l’americano Edward W. Deming (il fondatore del movimento della qualità,
particolarmente apprezzato nel mondo industriale giapponese e poi, solo al
termine della sua carriera, anche in patria) “Il duro lavoro non è qualità”.
( citato in “L’arte di non lamentarsi mai” di L. Ballabio)
Eh
?
Sì,
perché la qualità, come sostengono ahimè ancora troppo pochi pensatori nel
mondo industriale in cui questa frase è nata, è invece flessibilità, levità,
mutamento continuo. E’ trasformazione della fatica nel piacere di lavorare da
soli e in gruppo, per il gruppo. E’ quel piacere estetico, di contro al dovere
etico, di cui scrive Rossella Martelloni: “Mentre
l’etica è dipendenza, attaccamento al passato, l’estetica è libertà, senso della
collettività, creatività, proiezione verso il futuro, possibilità di vero
cambiamento” (“Le forme del cambiamento” in “Psicologia e Lavoro” aprile – giugno 2004).
E’
quel piacere di creare un clima di condivisione tra noi e chi lavora con noi, e
chi ( in campo industriale) è il cliente, ovvero il fruitore di quanto
lavorato.
“Qualità”
indica un processo di formazione continua, in cui, restando nel nostro terreno,
il Sensei, “colui che è nato prima”, non il Maestro (colui che ha la padronanza,
la maestria di un “qualcosa”), propone e si confronta con gli allievi,
mescolando competenze ed incompetenze di ognuno; scarta ogni dogma ed ogni
modello da imitare per costruire il personale percorso marziale, il so – stare
nel conflitto, di ognuno. Per farlo, agisce sia sulle potenzialità inconsce di
ognuno, su quell’area istintuale che sonnecchia in ognuno di noi “uomo
civilizzato”, sia su quelle abilità trasversali in grado di creare un clima
emozionale aperto e consapevole.
Una
formazione continua che, per essere veramente tale, si avvale di maieutica,
l’arte di porre domande. E’ la domanda e
non la riposta ad originare la conoscenza.
La
domanda maieutica è dialogica, ovvero richiede ad entrambi di essere soggetti
attivi, come tale anche ci tempra nella capacità di relazionarci
conflittualmente con l’altro.
Essa
è lo strumento fondamentale per ogni apprendimento, apprendimento che sia
basato sulle risorse del praticante e non sull’adesione omofona a contenuti, a
modelli, già predisposti.
In
una società fondata sempre più sull’accudimento, sono in pochi a riconoscere
l’ostacolo come una risorsa: ogni domanda, che “ostacola” il nomale flusso
delle convinzioni, è una opposizione che, suscitando emozioni, “sparigliando”
il gioco, nutre l’apprendimento profondo, consapevole.
La
domanda maieutica, nel nostro praticare marziale, sono sia i koan zen fisicoemotivi che io propongo,
quanto le domande / resistenze, anche quelle più stralunate, che pongono i
praticanti.
Tutto
quanto sopra: la qualità intesa come formazione permanente; il trarre dalla
informe palude di pulsioni ed emozioni il saper essere ed il saper agire;
l’arte di domandare come costruzione reciproca di un sapere vissuto e
personale; contraddicono l’aggettivo “duro”:
-
che
resiste all'azione deformante, erosiva, intrusiva di forze esterne; per estensione: rigido, faticoso, difficile da
smuovere. Anche: che non prova o non dimostra emozioni e sentimenti,
insensibile. Dunque, poco ricettivo, quanto
non agevole, irto di difficoltà.
Allora,
in precario ma esaltante equilibrio tra
il “no pain, no gain”; la sofferenza e il
senso di colpa tipico del cattolicesimo più oscuro; lo sforzo e la fatica come
unica legittima moneta per il premio finale; la durezza come sinonimo di forza,
di virilità;
il lassismo di valori; la ginecocrazia come
incessante erogazione di bisogni perché così l’individuo-bambino resti sempre
dipendente dall’autorità; l’assenza di prove e riti di iniziazione alla vita
adulta ed autodiretta; l’assenza dei “padri”, non solo i padri genitori ma il
“padre”, il “maschile e paterno” sano ed autorevole che incarni ed accompagni
l’avventura e la sfida quanto le regole ed i confini;
ecco,
in questa “terra di mezzo” ( oh, l’antico nome attribuito alla Cina !!) allo
Z.N.K.R. agiamo la pratica del lavoro di
qualità, duttile, flessibile, condiviso e personale. In cerchio. Insieme ed
ognuno da solo.
“Permettete
che ve lo chieda sinceramente - quanti di voi, onestamente, pensando di fare
qualcosa di vulnerabile o di dire qualcosa di vulnerabile, pensano,
"Cielo. La vulnerabilità è debolezza. È una debolezza?"
Quanti
pensano che vulnerabilità e debolezza siano sinonimi? La maggior parte di voi.
Ora vi farò questa domanda: Questa settimana quanti di voi, vedendo la
vulnerabilità qui sul palco, hanno pensato che si trattasse di puro coraggio?
Vulnerabilità non vuol dire debolezza. Io definisco la vulnerabilità come un
rischio emozionale, l'esporsi, l'incertezza. È il carburante della vita
quotidiana. E sono arrivata a ritenere - questo è il mio 12° anno di ricerca -
che la vulnerabilità è la misura più accurata del coraggio - essere
vulnerabili, lasciare che gli altri ci vedano, essere onesti.”
(Brenè Brown)
Fung fu = Duro lavoro …
RispondiEliminami viene da pensare a:
impegno e responsabilità con fatica e sforzo.
Io le Arti Marziali le vivo con impegno e responsabilità, se provo fatica e sforzo mi inkazzo e sbotto.