"Ricordati che quando punti l'indice verso una persona, tre dita della mano puntano su di te"
(proverbio indiano)
Oggi
scriverò di didattica (come
insegnare / imparare ) ed andragogia
(l’apprendimento negli adulti).
Ne scriverò evidenziandone tre caratteristiche proprie della
nostra Scuola.
Partiamo da
un dato, conosciuto secoli or sono nella cultura taoista e riconosciuto oggi da
neuroscienze e psiconeuroendocrinoimmunologia.
Cioè che
l’uomo, composto da più tratti psicologici in conflitto e combutta tra di loro
(1), si ritrova poi uno,
indivisibile, il cui corpo è uno spazio, un luogo dove il pensiero pervade ogni
organo, ogni apparato, ogni scambio cellulare. Per identico principio, vale
anche l’opposto: tutte le molecole e gli scambi chimici, e di conseguenza
energetici, che si generano nel nostro corpo, danno forma al pensiero e si
evolvono in una forma mentale.
Un complesso fisicoemotivo di cui ho già ampiamente scritto
in altre occasioni, sia sul blog che sulle pagine di SHIRO, il nostro periodico.
Allora, la nostra didattica e la nostra andragogia, quelle
con cui affrontiamo il percorso marziale, si sostanziano di
Una vulnerabilità (2) interna
Partire da sé, da ciò che sappiamo come da ciò che, strada
facendo, scopriamo di … non sapere. Aprirsi alle proprie risorse interne, accettare e ri – conoscere pulsioni ed
emozioni per farne strumento di apprendimento e di relazione con
l’ambiente. Il praticante non si plasma su ciò che viene da fuori, non ripete.
Questi relaziona sé e il contenuto propostogli non come accumulazione, perché
nulla del combattere ( come di ogni agire primordiale ) gli è del tutto nuovo,
ma come una specie di cassa di risonanza interna.
Una dimensione sostenibile
Attraverso lo stress del combattere, il praticante scopre le
proprie risorse. Ovvero la formazione marziale come attivazione e potenziamento
di quanto già è in lui a partire dagli stimoli interni (emos – azioni, cioè “moti d’animo propulsori di qualunque
movimento, compreso quello di contrattura frenante o difensiva”. S.Guerra
Lisi & G. Stefani: Il corpo matrice di segni ) ed esterni ( le situazioni
motorie a solo, in coppia e di gruppo, in cui viene coinvolto dal Sensei). Egli
accorda le proprie risorse fisicoemotive con gli accadimenti marziali della
formazione, che divengono occasione di
ulteriore conoscenza e rafforzamento personale. Un percorso di apprendimento e
crescita che, per dare i suoi frutti, deve essere sostenibile dal praticante,
ovvero fonte di eustress ( lo stress “buono”) e non di frustrazione, fonte di
cadute in cui gli sia sempre possibile rialzarsi e non di cadute nel vuoto o di
KO risolutivi della sua autostima: “Dentro
un ring o fuori non c'è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra”.
Mohamed Ali)
Una corrispondenza relazionale
Ovvero il
Sensei, “colui che è nato prima”, è guida
alla formazione, facilitatore sulla
via dell’apprendimento e non Maestro, ovvero unico depositario del sapere che,
dall’alto dello stesso, dispensa agli allievi.
Con lui,
opera il gruppo, luogo insieme di accoglienza (nessuno giudica nessuno) e
regressione ( tutti lavorano sulle pulsioni, sul primitivo che sonnecchia in
ognuno di noi).
Nel gruppo
vige:
la
risonanza, laddove
il vissuto di uno risuona dentro l’altro, stimolando dimensioni e conflitti che
ognuno sperimenta in modo personale, ma dietro induzione gruppale;
il
rispecchiamento,
laddove ognuno guarda gli altri per vedere se stesso, ovvero sugli altri mette
scene del suo mondo interno per poterle vedere e ri-conoscere. Scene che il
gruppo gli rimanda ogni volta reinterpretate dal gruppo stesso.
Il motore della pratica marziale, anche e soprattutto nei
suoi aspetti terapeutici (3) di
individuazione e crescita / consolidamento del sé, è la relazione: i calci ed i pugni, le bastonate e le coltellate, i
giochi di coppia, sono in primo luogo il
modo di costruire le condizioni perché possa esprimersi in modo produttivo la
capacità creativa del singolo nel gruppo.
Il metodo di apprendimento è la formulazione di domande
pratiche, di koan zen fisicoemotivi,
che inducano il praticante ad attingere alle sue risorse personali, alle sue
energie istintuali, per risolvere le situazioni di lotta. Con ciò imparando a
conoscere ed accettare le sue parti Ombra (ovvero quei sentimenti e ed emozioni
repressi e/o rimossi da ognuno di noi in quanto ritenuti brutti, cattivi,
socialmente non accettati; dunque anche l'insieme delle funzioni e degli
atteggiamenti non sviluppati della personalità ) e a formarsi adulto equilibrato e coraggioso.
Imparare a lottare nel
Dojo come metafora e metonimia del confliggere quotidiano. La formazione marziale per saper
affrontare le relazioni nel lavoro, in famiglia, interpretandone le difficoltà non come un ostacolo da abbattere o da
cui fuggire, un conflitto da risolvere, ma un’occasione di crescita e
trasformazione. Questo proprio grazie a quegli stessi aspetti conflittuali che,
in realtà, … arricchiscono le relazioni!!
1.
“Quante personalità si aggirano nella psiche
di un individuo ? E come fanno a stare insieme ? Quanto forti sono le tendenze
all’aggregazione tra queste diverse parti e quanto quelle alla dissociazione,
alla separazione ?” (C. Risé: ‘Diventa te stesso’).
2.
Sul
tema della vulnerabilità, rinvio al pensiero di Brené Brown.
3.
Terapia
marziale ( da non confondersi con la medicale “terapia del ferro” ) è da
intendersi come pratica del confliggere fisicoemotivo, del combattimento corpo
a corpo, quale percorso di individuazione ( “L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per
meta lo sviluppo della personalità individuale” C.G.Jung ) e potere
personale, di crescita adulta ed autodiretta, di capacità nel sostenere i
conflitti relazionali quotidiani.
Post illustrato con immagini del Raduno Kenpo adulti di Sabato 11 Maggio.
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