“Lo scopo delle Arti Marziali Cinesi
Tradizionali e delle altre pratiche di Nutrimento della Vita è di rivelare la
nostra vera natura e dopo, quotidianamente, di riallineare l'esperienza di ciò
che siamo con qualunque risorsa naturale o energetica sia disponibile.
... Oh Si, e anche un pochino di combattimento”
( Scott P. Phillips )
“Dai occupa lo
spazio !”; “Appena entri a contatto,
sei già nella relazione”. La mia voce sprona i praticanti ad entrare da
subito in relazione con l’altro, a reggere il rapporto fatto di ritmi e tempi
che si scontrano, che scivolano l’uno nell’altro. Relazione conflittuale, come
è ogni sana relazione dove l’uno mette
se stesso al centro e si confronta apertamente con l’altro.
Ricordo, anni addietro, la lettera in cui un allievo,
nell’allontanarsi dalla Scuola, si interrogava sul fatto che già viviamo in
mezzo ai conflitti, perché andare a cercarli in pedana ?; ovvero, del
confliggere, incapace di coglierne la necessaria presenza in ogni relazione tra
“diversi”, dava una dimensione negativa. Era, cioè, del tutto incapace di
comprenderne la forza realizzativa, l’essenza unica in grado di creare una
“sintesi” tra le opposte forze in campo. Mi chiedo come lui sarà riuscito a
gestire i conflitti abituali, se li vedeva come “fumo negli occhi” !!
Ecco, la nostra pratica marziale è appunto di “formazione al confliggere”: lo scontro fisicoemotivo, lo scontro di corpi
in lotta, come metafora e metonimia del confliggere quotidiano. Niente pratica
di “benessere” o scazzottamenti machoman.
La posizione dell’ex allievo
di cui sopra, ma pure queste povere pratiche di presunta salute o, al
contrario, di scazzottamenti da sfogo, rivelano, in modi diversi, l’incapacità
di capire la ricchezza del confliggere quanto l’incapacità di starci dentro responsabilmente. Ovvero facendone oggetto di riflessione già
nell’atto del fare, del tirar di pugni e calci.
E’, questa, una società largamente microconflittuale
negli episodi di criminalità, ma del tutto incapace di leggere ed agire il conflitto
nel quotidiano.
Genitori non più in grado di contenere ed indirizzare i
figli, tutti presi come sono dalla preoccupazione di essere amati da questi o
dal proprio delirio giovanil-narcisistico fanno il paio con un “politically
correct” melenso e piacione.
La stessa “sbornia” pacifista è responsabile di questo
svilimento del confliggere.
La legittima, ed auspicabile, voglia di “pace nel mondo”,
ha snaturato l’equilibrio che intende “pace” non come assenza di conflitto,
mirabolante Eden, ma come capacità di gestire i micro conflitti contenendoli in modo tale che, da un lato,
non raggiungano l’apice dello scontro armato patente, dall’altro non esondino
in macro conflitti del tutto ingestibili e perniciosi per l’umanità intera.
La polemologia, da tempo, ci ha spiegato che l’evento
bellico è un “fatto sociale totale”, comprensivo di aspetti biologici e
culturali.
E’ Claudio Risè a scrivere “Nell’Occidente maternizzato e consumista, la
violenza, la forza, l’aggressività, il maschile sono tabù (…) Ma proprio perché
ha rimosso la morte, la tarda modernità assiste a continui massacri, genocidi e
stermini. Proprio perché nega la virilità registra un’escalation di stupri e
delitti di ‘bravi ragazzi’. Non c’è come spostare nell’inconscio aspetti
fondamentali dell’esistenza per renderli regrediti, arcaici e incontrollabili”
(L’ombra del potere).
Dunque, lontani dalle pratiche asettiche, perbeniste e
salutiste; dalle pratiche formali e ripetitive; dalle pratiche che vivono su
tensione/carica e sfogo/scarica; noi ci muoviamo sul terreno della comprensione
del confliggere come naturale componente di ogni relazione, come elemento essenziale di distinzione che
significa responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze insieme
a necessità di mediare con l’altro e l’ambiente.
Io lotto con te in Dojo, porto alla luce quelle pulsioni
violente che si agitano in ogni essere umano, utilizzo sguardo e mani e postura
per affermare la mia assertività; di più, espando la mia sfera fisicoemotiva
per invadere la tua, occhi negli occhi, mani in faccia, respiro contro respiro.
Nel farlo, nell’assaggiare la mia forza aggressiva, confliggo con i limiti che
mi impone la tua presenza, sono costretto ad accettarli per potermi formare al
conflitto, allo scontro, pena la solitudine, l’alienazione di un allenamento
che sarebbe sempre e solo individuale. Senza di te, il mio avversario, non avrei
il partner con cui crescere e confrontarmi. Come a dire, un eterno soliloquio
in cui ho sempre, ovviamente, ragione io. Come a dire, l’incapacità di
costruire delle relazioni tra diversi…. ovvero l’elogio della masturbazione !!
Di più, la tua stessa forza, la tua stessa “sfera
fisicoemotiva”, sono motivo per riconoscermi, per rispecchiarmi.
Tu, confliggendo, mi presenti
soluzioni che io non conosco; tu, confliggendo, mi presenti uno specchio in cui
posso vedermi “nudo”, tenendo lontano gli usuali meccanismi di difesa che adotto
nel quotidiano: evitamenti, proiezioni, egotismo, ecc.
La prassi fisicoemotiva che ne risulta è terapia, nel significato fondante di
assistere, aiutare, servire, l’artista marziale nel suo cammino di
individuazione, di crescita adulta autodiretta fuori dal Dojo, nella vita di
coppia come al lavoro, con i figli, con i genitori, ecc.
Per questo, mutuandoli dall’Analisi Transazionale,
definisco:
“passatempi proiettivi”, laddove due individui si
incontrano ma non si includono, non partecipano pulsioni ed emozioni, in quest’incontro;
“giochi”, laddove l’individuo cerca la rassicurazione di
sé manipolando l’altro o la situazione senza coinvolgere l’Io adulto e portando
il “gioco” sul terreno di emozioni sgradevoli di cui non si assume alcuna
responsabilità;
quelle pratiche marziali, di combattimento, in cui:
si praticano forme,
esercizi, pignolerie tecniche memorizzate in “fotocopia” che, da sole, di per
sé, condurrebbero all’efficacia marziale quanto al benessere, alla salute. Ma
in virtù di cosa, questo dovrebbe accadere ? Sorta di prassi
ossessivo-compulsiva che rassicuri il “bambino” indifeso e bisognoso di
certezze;
si cerca lo sfogo fisico,
pompando la muscolatura superficiale ed istruendo un percorso di carica e sfogo
in cui sopraffare il compagno, un percorso di accumulo di rabbia e tensione
che, come in un vicolo cieco, va a sfogarsi sul compagno. Lungi da costoro il
pensiero che tensione possa essere risposta di interesse davanti a occasioni
stimolanti, tensione e attività, tensione e ricerca interiore, tensione e
conoscenza di sé, tensione e creatività: ma no, solo scarica !! Poi, una
doccia, e a casa e al lavoro, infilati nella coazione a ripetere, nel solito “copione”, il ruolo che,
inconsciamente e forse anche vigliaccamente, recitano sulla scena della vita
per rendere gli eventi più prevedibili, accettabili, rassicuranti… per non
confliggere !!
Ecco, già imparare a dire “No!”, prima di tutto ai noi
stessi, alle nostre fughe, ai nostri evitamenti, per guardare in faccia chi
siamo, come ci relazioniamo, dove stiamo andando, è un gradino fondamentale per
chi pratichi allo Z.N.K.R., per chi pratichi “formazione guerriera”. Poi
un “No!” utile a stare nel conflitto relazionale senza guastare il rapporto, senza fare
dell’interlocutore il problema.
Poi…. e la pratica marziale sana, autentica, da noi, allo
Z.N.K.R., continua …….
“L’azione
senza un pensiero di metodo e di teoria rientrerebbe in quelle proposizioni
fatte prima sul pazzo che fa le cose per niente o sul delinquente che fa
lesioni ad altri soltanto per proprio vantaggio personale”
(M. Fagioli)
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