Arriva così, d’improvviso, la telefonata: “La mamma è in coma”. Nemmeno il tempo di
attraversare i Navigli, sotto il sole che sa d’estate, e la stessa voce, al
telefono: “La mamma è morta”. Se ne è
andata così, un Mercoledì di Giugno.
Domani, Sabato, quando la bara sparirà inghiottita dalla
cerimonia funebre, sarò ancora più solo. Niente più fili col passato, con le
mie radici, se non i ricordi che, inevitabilmente, scivoleranno nell’oblio, deformati
nel tempo e nella memoria, minuscole stelle cadenti dalla parte sbagliata del
cielo.
Allora preferisco pensare allo scherzo che mi ha tirato
la mamma mia, andandosene proprio un paio di giorni prima dello stage estivo e
della mia settimana nelle Marche. Chissà come se la ride, la mia piccola mamma,
da lassù. Con tutto quello che le ho fatto passare, attraverso un’adolescenza e
poi una gioventù sempre fuori dalle righe: immortalato sui quotidiani e in
televisione in immagini di scontri e sprangate, sorpreso per strada ad
armeggiare con moto e bici rubate, buttato fuori dal liceo, in giro per strade
d’Italia dove non avrei dovuto essere, capelli lunghi, troppo lunghi, per
quegli anni e vestiti del tutto improponibili, e le corse in moto e le ragazze
portate in casa e … hai fatto bene, mamma mia, a tirarmi questo scherzaccio.
Ora sono a Milano, ad occuparmi, con tua figlia Anna, di
te, del tuo funerale e di tutte quelle pratiche burocratiche che a me paiono
orpelli grotteschi in una rappresentazione teatrale demente. Niente stage,
niente settimana di vacanze e pratiche marziali dall’amico Valerio.Bello
scherzo, mamma.
E penso ai tuoi insegnamenti di forza e resistenza, al
tuo non mollare mai. Sei stata tu, a volte più del babbo, ad insegnarmi la
scorza dura e l’indifferenza alle avversità.
Ricordo, io bambino di forse otto anni, venire a piangere
da te perché ero stato picchiato. Tu mi mollasti un ceffone prima di dirmi “Tu non devi mai alzare le mani per primo, ma
non venire più a dirmi che qualcuno te le ha date, perché te ne anche io”,
Lezione imparata in un istante. Da allora, iniziò la sfilza di mamme che
venivano a lamentarsi da te per un naso sanguinante o un labbro spaccato e tu,
donna minuta ma ferma : “Mio figlio non
alza mai le mani per primo, evidentemente il suo gli aveva fatto qualcosa”.
Ho continuato sempre così, negli anni successivi, anche se, tu lo potevi
immaginare, una volta “grandicello”,non sempre le mie mani partivano per
seconde…
Poi, i giorni dell’influenza: i primi tre giorni a letto,
coccolato e riverito come un principino; al quarto giorno, guarito o non
guarito, febbre o non febbre, mi buttavi giù dal letto che era il tempo di riprendere
la scuola ed il fare quotidiano.
Ricordo la colonia estiva dalle suore, in collina, e le
camminate di ore sotto il sole, tra salite impervie, detriti incerti sotto il
passo di noi bimbetti, l’arsura tormentosa alla gola che no, non potevamo bere
sino al rientro. Sarà anche per quello che le suore non suscitano in me alcuna
simpatia, eh, mamma ?
Ho continuato così per anni, per decenni, anche una volta
adulto: sempre “in guardia” e sempre a vedere solo il bello in ogni cosa che mi
accadeva, sempre a non mollare mai.
Convinto e fiero.
Fino alla Scuola Gestalt, ed avevo già cinquanta anni.
Quando il docente del primo anno, sentendomi sorridere fiero e contento del
fatto che, a vent’anni, ricoverato in sanatorio dopo un’emotisi ed una degenza
che pareva senza speranza in ospedale, in anni in cui la tisi era ancora una
bestia difficile da domare, una malattia invalidante, avevo finalmente una
camera tutta mia e non il salotto buono da dividere, la notte, con mia sorella,
sì quel docente mi appese al muro e mi costrinse a vedere in faccia tutta
la realtà. Anche quella che io non
volevo vedere. Quel docente mi costrinse a dire che ero stato sfortunato ad
ammalarmi, a vomitare sangue per le strade di Milano, a finire in Sanatorio tra
cure incerte ed un futuro che di normale non aveva molto da offrire.
Dopo di lui altri, in quella Scuola che è stata davvero
scuola di vita. Altri,a mostrarmi il coraggio della vulnerabilità, del guardare
dritto in volto anche gli accadimenti brutti e tragici, a masticare anche le
emozioni più scure e dolorose. Solo riconoscendole, poi accettandole, avrei
potuto davvero essere forte; avrei potuto davvero scegliere consapevolmente “
il bicchiere mezzo pieno”, solo dopo aver visto anche il “mezzo vuoto”.
Sono diventato un uomo meno allegro, meno sorridente, più
esposto ai dolori ma più equilibrato. Le mie violenze dentro, quel “passeggero
oscuro”, lo riconosco e lo agisco. Guardo in faccia le avversità, le affronto,
ma quando i colpi che ricevo sono troppo forti per me, non faccio finta di
nulla. Mi fermo, mi “lecco le ferite”, ci piango un po’ su prima di rialzarmi e
combattere.
Ed è per questo che, mamma, il tuo scherzo è andato solo
parzialmente a buon fine.
Perché il Tiziano di una decina di anni fa,
immediatamente finito il funerale, sarebbe partito per le Marche, a completare
lo stage, a fare la settimana di vacanze e formazione marziale dall’amico
Valerio, a fare il suo dovere, a mantenere, sempre e comunque, l’impegno preso,
a sorridere agli amici, a prestare cuore ed empatia a chi voleva una mano per
un problema o un dolore.
Invece no. Resterò a Milano a “leccarmi le ferite”:
voglio il mio tempo per piangerti, mamma cara che non tornerai mai più. Voglio
gridare al cielo il mio dolore, la mia rabbia per avermi lasciato solo. Voglio
commiserarmi perché tu sei morta; parola terribile, priva di ogni domani.
Voglio il tempo del mio dolore, del mio bicchiere “mezzo
vuoto”, prima di gongolare per la parte “mezza piena”.
Scherzo riuscito a metà, mamma. O, forse, tu lo sapevi
che sarebbe andata così, e mi hai semplicemente lasciato uno, l’ultimo, dei
tuoi insegnamenti.
Ti amo, mamma. Anche per questo, qui vedrai le foto di
mio figlio Lupo, di parenti ed amici che si sono spostati fino fuori Milano per
vederlo debuttare a teatro con la sua nuova compagnia, la “Dual Band”, ed i
suoi compagni del corso di teatro. Perché non hai voluto aspettare di vederlo
grande e, magari, attore affermato. E ti capisco, 98 anni sono un fardello
bello pesante. Ma così, dal cielo delle stelle spente, un’occhiata la puoi
buttare pure tu e, con te, papà Renzo.
Addio, mamma.
“Non sono un ubriaco, ma
neppure un santo. Un medicine – man non deve essere un ‘santo’ … Deve poter cadere
in basso quanto un pidocchio ed elevarsi come un’aquila … Deve essere dio e
diavolo insieme. Essere un buon medicine - man significa trovarsi nel mezzo di
una tormenta e non mettersi al riparo. Significa sperimentare la vita in tutte
le sue espressioni. Significa fare il pazzo ogni tanto. Anche questo è sacro”
(Capriolo
Zoppo, stregone della tribù Lakota)
Intravedo il mare,malinconico dopo averti letto,e dentro mi sento pesante.
RispondiEliminaChissà come ride la tua mamma di questo suo ultimo scherzo,questa ultima lezione che ti ricorda,come con fare taoista, che non c'è dare senza ricevere..ma sarà fiera nel sapere (e di certo lo ha visto) quanto tu abbia appreso dai suoi insegnamenti che porti con te,tramandandoli anche a chi hai attorno a te.
Prendi il tempo che serve,mastica il tuo dolore,Sensei,amico. Noi penseremo alla Scuola,c'è tanta gente che ancora vuole crescere,e chissà che ognuno a suo modo,divenga guerriero,un adulto autodiretto..
Sempre avanti!!!
Oss!!
Giovanni