martedì 1 agosto 2017

Chi ha paura dell’autonomia?



Avete notato come sia diffusa l’insana abitudine di informarsi, studiare, confrontarsi sempre negli stessi, rassicuranti, ambiti: Le persone che, tendenzialmente, la pensano come noi; le riviste e le pubblicazioni che riportano quel e come noi pensiamo; i gruppi ed i luoghi in cui ci sentiamo riconosciuti e rappresentati?

Quando sconfiniamo, volutamente o meno, in territori “altri” da noi, la piazza di fb ne è un esempio, lo facciamo poco, pochissimo, per ascoltare e molto per affermare (urlare) le nostre verità, la nostra identità.

Ho definito “insana” l’abitudine di cui sopra, perché essa rivela la pigrizia, l’insicurezza, per alcuni la paura, di esporsi al confronto (il conflitto) e, così, anche scoprirsi “nudi” davanti all’altro (e a sé), scoprirsi portatori di maschere e corazze per coprire le proprie fragilità, incapaci di capire ed adattarsi a nuove ipotesi incontrate.
Confrontandosi con le opinioni altrui, si rischierebbe di confliggere con le proprie credenze, giungendo a riconoscerle come instabili pregiudizi, cominciando ad apprezzare quelle degli altri. Tuttavia, ciò implicherebbe il faticoso e incerto rischio di doversi mettere in gioco e, ancor peggio, di ricredersi ed iniziare un piccolo, (o grande) percorso di crescita e trasformazione.

Sì perché, formatisi dalle e nelle nostre credenze, una volta che queste siano messe in crisi, diverrà improcrastinabile re-imparare di sé e, con ciò, re-imparare a vivere, impresa affascinante che richiede energia e tempo, nutrendosi di apertura, fiducia, rispetto ed apprendimento; nutrendosi di incontri e confronti e relazioni costruiti con una reciprocità feconda; incontri tali, pur e forse proprio grazie alla diversità e al confliggere che ogni diversità porta in seno, da farci apprezzare i frammenti di serenità, persino di felicità, che una vita di apertura e ricerca ci dona.
E’ così semplice e facile, privilegiare i fatti e le opinioni che supportano il nostro punto di vista, piuttosto che considerare accoglibili quelli che lo contraddicono e, con ciò, far vacillare la fiducia in noi stessi. E’ così semplice e facile, ridurre l’ambiguità aggrappandosi a un punto di riferimento stabile, per poi operare degli aggiustamenti e, infine, raggiungere una decisione finale che non ci turbi, non ci contraddica.

Ecco perché tratteggio sempre come

semplice, ma non facile

il nostro praticare Arti Marziali, laddove non esiste né uno stile da imparare, né un modello da imitare, né un percorso di apprendimento lineare da seguire.

Personalmente, trovo insostenibile la possibilità di poter avere una qualche forma di conoscenza “oggettivamente vera” della realtà.
Lo strutturalismo, la meccanica quantistica, hanno smontato ogni rozza definizione di reale.
Numerosi esperimenti di psicologia sociale, ad esempio, hanno dimostrato come il modo in cui una persona si sente quando deve elaborare un giudizio su un’altra persona, influenzi notevolmente la sua percezione.

Questo ha da far riflettere chiunque cerchi un approccio valido al combattimento, che è prima di tutto uno scontro vorticoso di emozioni, di sensazioni di sé e dell’altro davanti a sé.
Ancor più per chi, non accontentandosi di giocare al “guerriero”, di sfogarsi “menandosi”, di tessere farneticazioni (seghe) mentali sull’autocontrollo e l’imperturbabilità, faccia del percorso marziale, di pugni e calci e bastonate e coltellate, un percorso di individuazione e crescita personale.

Qualsiasi “intellettuale” storca il naso davanti ad una proposta che fa dell’agire, del movimento, un percorso di crescita, dovrebbe sapere che

se comprendere è edificare una rappresentazione del mondo esterno,

agire, invece, contempla da subito un’immagine degli effetti desiderati di un’azione e poi prosegue nella sua evoluzione.

Agire, muoversi nello spazio, come ci spiegano neurobiologia e psicobiologia, significa procedere da una mappa dell’ambiente, cioè da coordinate che obbediscono alla corteccia parietale e all’ippocampo, responsabili di molteplici aspetti delle memorie spaziali.

Dunque, con una pratica che più volte ho definito un caffelatte composto di maieutica e paradossi, domande ed imprevedibilità, in cui a volte più forte è il sapore del caffè, altre quello del latte, ma, ormai uniti, è impossibile separare l’uno dall’altro, sono da anni passato dall’idea, tipicamente razionalista e scientista, che si possa risolvere un problema solo una volta che lo si sia conosciuto fino in fondo, all’idea che “si conosce il problema mediante la sua soluzione”.
Ecco il saper interpretare la forza della sensazione che ci sta limitando e sfruttarla per spingerci al di là dei nostri limiti, come a dire il trito e ritrito ma ben poco praticato, in un combattimento, sfruttare a nostro favore la forza dell’avversario.

Questo percorso di continua eretica ricerca, significa necessariamente, che io inviti i miei allievi a verificare la bontà della loro scelta provando presso altri docenti, altre scuole, altri praticanti e poi condividere con me quanto esperito, tanto quanto stuzzicarli perché la loro ricerca eretica non si limiti alla stretta pratica marziale ma si confronti anche nella quotidiana vita di relazioni affettive, di lavoro, in uno scambio continuo in cui la pratica marziale impari dalla vita e viceversa, toh, di nuovo il caffelatte.

E questo, necessariamente, vale anche per me.

Certo, dopo decenni di Musha Shugyo, percorso errante di scoperta e formazione nei diversi campi marziale, motorio, terapeutico, ora mi permetto di selezionare, di centellinare i “sorsi del bere” in ragione anche dell’età e del tempo di vita che inevitabilmente si va riducendo.
Eppure, tra i miei amici più cari, dunque a … “influenzarmi”, contribuiscono adepti dei pesi e del “No pain no gain” con fini cultori del “No pain, more gain” e del distacco da ogni esercizio con sovraccarichi esterni; praticanti volti ad una visione “interna” e sottile del fare motorio con aitanti sportivi volti alla periodizzazione dell’allenamento e a macro, meso e micro ciclo. Più in generale, lucidi appassionati di musica colta con divoratori di MTV; mescolatori incalliti in grado di apprezzare indifferentemente film di Pasolini e di Lillo & Greg con puristi di genere, assidui frequentatori di mostre e musei con altrettanto assidui frequentatori di locali di tendenza.

Io stesso procedo aperto ed accogliente, critico ma mai pregiudizialmente chiuso, tra una serata da Mc Donald’s ed una cena in un ristorante stellato, una intima cena tra amici ed una tavolata gridando di stonato karaoke, alla ricerca di un concerto di Petra Magoni e con in tasca il biglietto per quello di Caparezza, a scorrere le righe di una rivista di gossip, mentre sulle ginocchia ho un libro di Fagioli.

Oddio, lo confesso, a tirar di pugni in una palestra affollata di maleodoranti maschioni urlanti, a sfogarsi delle repressioni di una minuscola vita rattrappita picchiando sul sacco, a sudare massacrandosi di deleteri crunch e rovinandosi le articolazioni ripetendo balzi e squat, sarà difficile vedermi. Anche perché, passi la compagnia di ventenni, a cui posso concedere l’innocenza e l’ignoranza dettate dall’età e dalla poca esperienza, ma quando vedo stravolgersi in simili pratiche over quarantenni e cinquantenni, magari pure padri di famiglia, le mie considerazioni sul genere umano e sullo stato attuale della società, piombano irreversibilmente nel buio più nero.
Va bene, dai, non sono perfetto !!!!!!

 

 

Post illustrato con foto scattate al festeggiamento di Giovanni per i suoi quarant’anni.

  
 
 
 
 


 

1 commento:

  1. Questo post, o almeno una parte di esso, sembra scritto apposta per questo momento della mia vita: così pochi sono coloro che comprendono, anche tra le persone amiche, quindi già selezionate, il significato di ciò che mi accingo ad affrontare! Molto e per molto tempo andò di moda il Siddharta di Hesse, in cui questi concetti di apertura ed assenza di giudizio sono espressi più che chiaramente, ma forse i molti lo lessero per non sentirsi esclusi, senza peritarsi di capire, altri magari lo hanno dimenticato, altri ancora lo comprarono, gli diedero un luogo, e si godono ancora complimenti ed autocompiacimenti per averlo esposto in libreria: alla fine, basta dire "è bellissimo" o "straordinario", per fare bella figura.
    Se mi è concesso avanzare ipotesi, l'abbarbicarsi ossessivo alle proprie convinzioni o posizioni può non essere dovuto a pigrizia, ma al mito della competizione, per cui, alla fine della gara, è importante avere ragione, e ad essa si sacrifica l'arricchimento che può derivare da differenti punti di vista, anche opposti, e da persone invise o disistimate: quanta tristezza assistere alle tribune politiche, in cui ogni fazione cerca di squalificare quella opposta, senza concedersi di valutare se questa abbia espresso idee interessanti (ok, di solito non avviene tra politici italiani, ma se avvenisse nessuno lo rileverebbe). Ovviamente è solo una teoria non clinicamente verificata, frutto della mia non qualificata osservazione. Quello che non mi convince completamente della pigrizia come causa, è che si fa un gran dispendio di energia nel protestare le proprie immutabili ragioni, e pochissima a mettersi in discussione, così come abbattere un muro rispetto ad aprire la porta. Certo, è difficile pensare che un individuo, allevato al mito dei vari superman, o dell'infallibilità del Papa, trovi spontaneamente il gusto della sconfitta, o che un altro individuo, cui è stato impartito un sapere ed impedito di curiosare e sperimentare, trovi in sé la gioia di imparare; ed anche tra quelli, pochi, accarezzati dal dubbio, non tutti trovano Morpheus, e non tutti tra questi fortunati scelgono la pillola della consapevolezza, anche perché le sirene cantano sempre più forte, nella civiltà dei consumati.

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