mercoledì 2 giugno 2021

“Solo chi è autosufficiente può stare solo, la maggior parte delle persone segue la folla e procede per imitazioni.” (B. Lee)

Sabato sera, con Monica, al cinema Anteo per vedere “The Father” di Florian Zeller.

Non sono un critico cinematografico ma, dopo averlo visto, mi risulta ancor più radicata la convinzione che gli Oscar, come i premi in tutte le competizioni “artistiche”, siano distribuiti in ragione di potentati, favori dati e ricevuti, clima politico e culturale da ossequiare, e lo stesso dicasi per i pareri della critica.

The Father è una pellicola ben più avvincente del pur interessante Nomadland e di gran lunga superiore al mediocre e sciatto Minari.

Però siamo in tempi di anti Trump, di integrazione a tutti i costi, di politically correct sparso a piene mani, di sostegno a tutte le minoranze, purché accreditate dalla sinistra radical chic.

Come non ricordare la vittoria di un lindo e perbene “Green Book” alla faccia dello spigoloso e ombroso “BlacKkKlansman” di un altrettanto irriducibile Spike Lee?

Tant’è, nulla di nuovo in una società capitalista che, al pari delle vecchie dittature socialiste, premia quel che fa più comodo e meno “rompe”, e, a ovvia differenza delle seconde, anche premia quel che vende di più e più fa consumare.

La strada per aggiungere l’Anteo, strada di movida giovanilista, è l’occasione per immergermi in una folla di ragazzotte succinte, del genere stivaloni neri e abitini attillati e “raso topa”, (come si diceva una volta ed ora, immagino, guai ad usare una simile espressione sessista!!), e ragazzotti in jeans e maglietta o camicia.

Difficile distinguere una ragazza dall’altra, un ragazzo dall’altro.

Difficile non notare lo sfarzo di logo, di marchi a…marchiare scarpe o abiti e chi li indossa.

Certo, quelli incontrati sulla strada dell’andata e del ritorno saranno solo una fetta della popolazione giovanile delle grandi città, ma non posso esimermi dal riflettere su quanta pochezza e conformismo mi abbiano trasmesso.

Certo, non è che ai tempi della mia adolescenza e gioventù le cose fossero molto diverse. Nella massa erano, eravamo, in pochi a portare capi d’abbigliamento “fuori ordinanza”, fuori dal coro.

Una nota diversa però c’era: l’assenza di frenetico bisogno di sfoggiare il marchio, il capo di nome, il lusso.

Conformisti sì, ma senza ostentazione di sfarzo tanto presunto quanto pacchiano.

O forse è che la moda, e con lei la pubblicità, non era ancora quel potente servo del consumismo.

La pubblicità, ormai, non ti spiega il prodotto, ma ti spinge a comprarlo, utilizzando l’arma delle emozioni.

La moda ti dice cosa non è più alla moda, cosa non è più socialmente apprezzabile, e ti induce a buttare via il vecchio per nuovi acquisti che ti facciano sentire integrato quanto appariscente.

Allora, pur distante mille miglia dalla figura e, sovente, dal pensiero di Michele Serra, di cui ricordo ancora la sparizione dopo l’ingloriosa fine della “gioiosa macchina da guerra” occhettiana di cui era sostenitore, ne accludo qui sotto un brillante pensiero che, pur già datato, è, ahimè, sempre attuale:

 

Nessuna persona davvero di valore dedica particolare attenzione al proprio abbigliamento.

Lo scrive Mina sulla Stampa, in un bell' articolo contro la moda e i modaioli, e può permetterselo, essendo una delle poche vere dive italiane di sempre.

Sottoscrivo: la regola enunciata da Mina, come tutte le regole, ha qualche (rara) eccezione, ma non è difficile verificarla.

L' ossessione italiana per l'abito e per il look ha coinciso con uno dei periodi meno felici e fervidi della nostra storia, come se ci fosse un nesso preciso tra il deperire della sostanza e il trionfo del formalismo. Basta girare per l’Europa, in città spesso più pulite, più ordinate e più progredite delle nostre, per accorgersi che la gente, in media, è vestita in maniera molto più informale, quasi trasandata.

Da noi, al contrario, non è rara la figura antropologica del villanzone elegantissimo, o della povera di spirito agghindatissima, e ci sono scorci di gruppo (certi pubblici negli studi televisivi, certi strusci per lo shopping del sabato) all' insegna di un travestitismo collettivo che non ha eguali al mondo, ipertruccato e pacchiano.

Quanto alle persone davvero di valore che se ne fregano dell'abito, ognuno di noi ne conosce o ne ha conosciute parecchie: molto semplicemente, non ne hanno bisogno, bastano la faccia, le parole e l'atteggiamento verso gli altri a documentarne ampiamente lo stile.

(M. Serra “L’Amaca” sul quotidiano La Repubblica)

 

 

 

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