lunedì 28 aprile 2025

Lezione aperta Tai Chi Chuan e Festival Taiji Quan

Calda mattina di primavera, qui ai giardini Marcello Candia in Milano. Il vento gentile si muove silenzioso, invisibile. L’erba alta, pochi i bambini a giocare qui e là, mentre il mattino prende ad arrossirsi di un timido sole.

Piccolo gruppo di praticanti che, in occasione della

Giornata mondiale del Tai Chi Chuan

hanno aderito alla mia proposta di una

Lezione Aperta

C’è Matteo, a rappresentare lo Spirito Ribelle, e c’è Sergio, che fu allievo negli anni dello ZNKR. Con loro un paio di persone che hanno visto la proposta della lezione sul periodico di zona “Quattro”.

Praticare di corpo, in particolare praticare Neijia Kung Fu /Naido, le Arti Marziali con una visione interna, per me è come scoprire l’intero mondo in uno scambio di sguardi, trovare l’infinito sulla punta delle dita della mano.

Questo mio mondo provo ad aprire al corpo degli astanti.

Due saranno i temi fondanti l’incontro:

  • La percezione dell’aria come presenza fisica, reale, con cui confrontarsi; resistenza a cui relazionarsi, materia da attraversare.
  • Il movimento ad onda, la successione delle spirali, come energia cinetica atta ad agire e muoverci nello spazio.

Così, qualsiasi siano le proposte motorie, corredate da riferimenti teorici che spaziano dai testi taoisti alle ricerche sul movimento di Moshe Feldenkrais, dalle indicazioni di strategia guerriera del generale Sun Tzu all’anatomia esperienziale come spiegata dal Body Mind Centering, suggerisco sempre di fare i conti con la presenza viva e reale dell’aria attorno a noi e delle catene cinetiche che innescano l’onda.

Oscillazioni secondo i principi dello Yi Quan; mani nello spazio e dentro l’energia dello Healing Tao; la respirazione a narici alterne; l’onda shock; Peng Lu Ji Han….

Per esperienza, so che chi vuol parlare di quel che sente non sa cosa e come dirlo: Esprimersi sembra solo confusione, stare in silenzio sembra scansare quel che si prova.


Ma sono i corpi stessi a parlare, a comunicare. Attraverso loro, si incominciano a intuire le storie narrate e quelle rimaste inascoltate, a cogliere il ritmo del tempo là dove più a lungo si è posato.

In cerchio, un sorriso corale, sorriso nel volto che mi auguro giunga al cuore, e l’incontro termina.

Con Sergio, raggiungiamo casa, dove Monica ci accoglie sorridente e viziandoci con un pranzo delizioso. Lunghe chiacchiere con un ex allievo, con un amico, che non vedo da una decina d’anni poi raggiungiamo

La Fabbrica del Vapore

dove si tiene il

Festival del Taiji Quan

Lì ad attenderci ci sono Giuseppe, già allievo, Maestro a sua volta, e Donatella, anche lei praticante di lungo corso ed amica cara.

Mi piace questa costruzione, da anni votata alle sperimentazioni di corpo e movimento, aperta a mostre di ogni forma artistica; da anni anche “casa” del corso di Laban Movement Analysis che conduce la docente Micaela Sapienza e che ho il piacere di frequentare regolarmente. Beh, ora un inconveniente salutistico mi terrà fermo qualche mese, ma poi …

Non mi piace affatto quel che vedo. Qua un ammasso di praticanti intruppati ad imitare gesti, là un capannello in cui il Maestro spinge e sbatacchia gli allievi usando modesti trucchi, accanto a noi un altro Maestro sistema braccia e mani di una praticante come fosse una marionetta e non un corpo vivente; passano quelli della spada, che in realtà (e come purtroppo è ovunque) è un pezzo di latta del tutto inoffensivo: Come guidare ai giardinetti un’auto a pedali credendosi un pilota di Formula Uno!!

Mi intrufolo qui e là. Una praticante bofonchia sconsolata “E’ difficile, è difficile”, un altro cerca di resistere di forza allo squilibrio dell’esperto, c’è chi allunga il collo per vedere che fa il Maestro superando il muro di chi gli sta davanti, sento scandire i comandi a dirigere chi imita un gesto dopo l’altro per eseguire una forma.

Ma è questo il Tai Chi Chuan? Questo è il mondo Neijia Kung Fu / Naido?

“I miglioramenti dipendono dalla consapevolezza interiore e non dalla forza esteriore” ed anche “Se continuerete a dipendere dal maestro o a riprodurre il particolare approccio dell’insegnate, non potrete raggiungere il vostro potenziale più alto”

(Jou Tsung Hwa in “Il Tao del Tai Chi Chuan”)

“L’esercizio giusto è quello che si adatta all’evoluzione naturale di ogni corpo umano”

(Tokitsu Kenji in “Yi Chuan”)

Un curioso che ora si aggirasse tra questi gruppi, che penserebbe del Tai Chi Chuan e delle Arti cosiddette “interne”, “dolci”?

Sono combattuto tra lisciare il mio ego o ritenermi dentro una sorta di “black mirror”, in cui non è la tecnologia a distorcere le mie percezioni ma qualcosa di sbagliato in me.

Ecco, avrei molto da scrivere. Ma sono troppo disturbato. E chi sono io per criticare, financo giudicare, altri?

Che costoro seguano pomposamente la loro strada, Maestri ed allievi. Io mi tengo la mia, la nostra Spirito Ribelle. Mi tengo il dubbio di essere io, noi, quelli sbagliati.

Sbagliati a ritenere l’Arte Marziale un percorso incerto, affascinante proprio perché tale e non un’autostrada con luccicanti autogrill, indicazioni precise ed inappellabili, entrate ed uscite obbligate in cui paghi, quanto paghi!!

Sbagliati a ritenere che ogni individuo, dunque anche il neofita alle prime armi, è una risorsa ed ogni relazione un campo di sperimentazione, rifiutandosi di trattare l’altro come un ignorante ed asettico ricevitore, di ritenere che la materia di pratica e studio è immutabile è un dogma, e che l’allievo non ha altra scelta se non vedere e capire l’insegnamento così come esso “è”.

A ciascuno il suo!!

 

“Che cosa credono i buoni allievi ? Che cosa fanno ?

Anzitutto, confidano nella loro capacità di apprendere. (…)

I buoni allievi tendono a provar piacere nel risolvere i problemi. (…) essi preferiscono fidarsi del proprio giudizio. (…)  essi sono sospettosi verso le “autorità”, in special modo verso tutte quelle autorità che tendono a dissuadere gli altri dal fidarsi del proprio giudizio.

Normalmente i buoni allievi non hanno paura di sbagliare. Essi riconoscono i propri limiti e non subiscono alcun trauma nello scoprire che ciò a cui essi credono è apparentemente errato. In altre parole, possono cambiare di convinzione. (…)

I buoni discepoli sono flessibili. (…) le “risposte” sono relative, che ogni cosa dipende dal sistema al cui interno si opera. Quello che è “vero” in un sistema può non esserlo in un altro. (…)

I buoni allievi non hanno bisogno di una soluzione assoluta, definitiva, irrevocabile per ogni problema. (…)”

(N. Postman in “L’insegnamento come attività sovversiva”)

 

 

@paolo.borzacchiello

 

giovedì 24 aprile 2025

Il Budo necessario




Mi è accanto, calda, la vita, il gesto colore del mio cuore, lo scandire ritmico che accompagna ogni fruscio di mani vive.

Pratico dolce, delicato, quasi suadente. In questi mesi che mi lasciano tensioni e potenze che non trovo se non occultate; tutto quanto l’imparato, tutto quanto l’esperito, va diluito, va nascosto obbedendo alle leggi di un’attesa di salute piena, di ritorno alla normalità fisica, via dagli impedimenti medicali.

Così pratico di uno “stato calmo”, che è la lettura più consona alla nostra cultura di quello che in Oriente è Zazen (1), quello Zazen che porta con sé l’aggravante, per noi italiani, della ripetizione ad alta voce di formule in una lingua che non si conosce e neppure si sa correttamente pronunciare.

Rumen Zen e Fa Han Zhuang, due diversi modi di aprire il corpo, dentro, dentro gli organi tutti, fino a sciogliersi acqua.

Nami, la pratica delle “onde”, quel movimento che, simile a possente fiume d’acqua, costruisce ogni nostro agire nello spazio, qui allo Spirito Ribelle. Conosciuto grazie agli insegnamenti Tai Chi Chuan e Pa Kwa del Maestro Erle Montaigue, approfondito con lo Yoseikan Budo del Maestro Mochizuki Hiroo, sviluppato attraverso le mie personali ricerche anche esercitandomi in pratiche motorie occidentali lontane dal marziale. E’ nostro tratto distintivo, ci fa UNICI, inarrivabili.


Agire di corpo, confrontarsi con i limiti e le possibilità dello spazio, fare i conti con la forza di gravità: La pratica marziale, del confronto che è anche scontro, la pratica Bujutsu, è una visione generale, tocca ognuno di noi. Ciascuno a suo modo, secondo la sua personale cultura, il suo personale stile di vita, tutti in varia misura siamo “marzialisti” e, consapevoli o meno, ci nutriamo di Bujutsu: sopraffare per non essere sopraffatti. Vincere la pigrizia e alzarsi dal letto; affrontare la paura di un evento; relazionarsi consapevolmente e serenamente all’interno di un rapporto sentimentale conflittuale; gestire tensioni e scontri sul luogo di lavoro…. ogni giorno ognuno di noi è sfidato ad essere un marzialista, un combattente.

Solo, alcuni lo riconoscono, e lo riconoscono più degli altri, abbracciando esplicitamente la pratica delle Arti Marziali. E le vivono come Budo, educazione a vivere, esercizio pratico di vita, trasformazione che è stata la storia delle Arti Marziali stesse nello scorrere dei secoli. Esse sono diventate un percorso per sostenere la crescita dell’uomo, sostenerlo per farlo vivere meglio ed elevarlo, rendendo la vita degna di essere vissuta.

  • Pratica marziale, pratica Budo, che diventa pratica quotidiana, pratica di vita, formazione a saper vivere e ad accettare di morire, sapendo invecchiare: Intransigente compresenza di inizio e fine. Antica saggezza taoista.
  • Pratica marziale, pratica Budo, che si affida a stati di coscienza espansa perché, quando si ha il coraggio di contattare l’Ombra (2), di scendere in cantina, di fare i conti con le nostre pulsioni più sporche e inconfessabili, la coscienza non è più sufficiente. Come già scriveva il filosofo greco Plotino, “Senza coscienza, gli atti sono più puri, intensi e vivi al più alto grado”. Si osa l’estasi, l’intuizione nuda e vera, quella istantanea e folgorante.

Mastico di corpo e cuore mentre Peng Lu Ji Han (3) sfida i quatto punti cardinali, una volta in senso orario e l’altra antiorario. Poi sono Maki, “mani che avvolgono”, immaginando il contatto con l’opponente; i primi tre animali della camminata in cerchio Pa Kwa / Hakkeshou e le gentili mani assassine degli Yuri.

Vagabondo in direzione approssimativa, incontrando qualcosa che già ho incontrato più volte, ma ogni volta quella che è la fine della luce della candela si rianima; qualcosa mi tira indietro, qualcosa di più forte, di sfidante, mi spinge avanti.

Ogni insegnare è sempre un imparare insieme, ogni proporre è sempre un confrontarsi insieme. La pratica marziale, quando sa di sé e della sua storia, è arte di vivere, forma a stare bene al mondo, a comprenderlo, a dare il proprio piccolo o grande contributo per cambiarlo, amarlo e saperlo lasciare.

Inutile fingere che non ci siano Tradizioni, simboli, liturgie che ci hanno preceduto, in qualche modo formato. Inutile pretendere di dimenticarle.

L’efficacia nello scontro fisicoemotivo, il Bujutsu, divenendo Budo, stimola a conoscersi e a migliorare, getta un ponte tra noi e gli altri financo, forse, tra noi e il mistero dell’universo. E’ una chiave vera, carnale, per aprire la porta del mondo.

Nessuno può illudersi di vivere la vita come individui separati da tutto il resto, estranei alle influenze dell’ambiente che abitiamo, delle scelte che compiamo.

Praticare Bujutsu come transizione alla pratica Budo è il cammino che io scelgo per dare corpo a questa considerazione.


I quattro movimenti base proposti dal Maestro Wang Xian Zhai: Gru, Serpente curioso o sopreso, Dragone, Onda; la manipolazione di una palla; la “tecnica segreta” tramandata dal Maestro Wang Xuanjie; infine la forma Tai Chi Chuan.

È qui accanto, vivida presenza, la vita, l’aria smossa dai miei gesti, il tempo che batte dentro ogni spostamento, sono mani vive che mi cercano e cercano altrove.

Qui allo Spirito Ribelle, praticare di corpo, praticare conflittualmente, è scartare ogni esercizio meramente intellettuale quanto volgarmente di Korper, corpo oggetto; è, invece, stare nel laborioso e indistinto rumore della vita, scandendo il ripetersi e il rinnovarsi del vivere quotidiano, è scoprire come la semplicità di un gesto, di un movimento, ci restituisce il profondo fascino del vivere. Ed io, oggi, tramonto affacciato dentro casa, ci sto provando.

 

1. “Che cosa significa fare Zazen? Significa sedersi in una postura come quella che abbiamo già visto per la meditazione Vipassana, e lasciare la presa sui pensieri. Posizione del corpo e attenzione alla respirazione sono praticamente uguali, come nella Vipassana. E anche la finalità, si può dire, è la stessa: diventare consapevoli della propria vera natura, riportare “la mente a casa”, e in questo modo liberarsi dei desideri, di ogni tipo di desiderio, a cui seguono gli attaccamenti, che a loro volta generano sofferenza da cui bisogna liberarsi qui e ora.”

(https://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php/La-meditazione-zen-un-dove-infinito-senza-sofferenza?EW_CHILD=28344#:~:text=E%)

2. “Con il concetto di Ombra Jung definisce quella parte dell’individuo che non è consapevole e che racchiude in sé aspetti di noi sia negativi che positivi ignorati.  Dapprima Jung fa coincidere l’Ombra con l’inconscio personale poi nel corso della sua opera ne amplia il significato e l’ombra diviene uno degli archetipi fondanti il percorso di individuazione. L’archetipo dell’Ombra è uno dei primi con cui ci si deve confrontare all’interno di un percorso di crescita e trasformazione. Jung chiama questo percorso Individuazione”

(https://odasso-psicologa-torino.it/2018/10/08/il-viaggio-infero-incontrare-lombra/)

3. Sono i primi quattro nomi delle "otto forze" del Tai Chi Chuan, che sono: Proteggersi espandendo (Peng), ritirarsi ruotando (Lu), premere penetrando (Ji) e spingere sollevando (An).

 


 

 

 

sabato 19 aprile 2025

Yuri, le delicate mani che uccidono

 


Evidenza serale, ore melanconiche, fuori la luce trema coraggiosa nel suo discendere verso il tramonto.

Tendo e fletto le braccia che sfidano delicate l’avversione dell’aria.

Nessuno a guardarmi, nemmeno io. Minuti fruscianti, mentre danzo di Yuri.

Yuri, “percepire la forza”, è l’estensione nello spazio di Ritsuzen e Hanzen. E’ unire il corpo con l’ambiente attraverso la sensazione e la percezione di tutte le membra che l’aria oppone resistenza ai miei movimenti. Più essi sono piccoli, migliore è la pratica.

Aderente a me un drago muscoloso agita squame e coda che sono solamente sue e lungo le braccia mi scivola un’ombra pesante: Vacilla la vivida sensazione che ciò che è appariscente sia più importante e potente di ciò che non lo è. Vacilla fino a crollare: Invincibile resa.

D’altronde questo è il mistero del Taiki Ken, delle Arti sottili che fanno di vulnerabilità, flessibilità e dolcezza arma tagliente e letale.

Nessuna gestualità è ferreamente codificata, immutabile nel tempo.

Solo, qui allo Spirito Ribelle, un gruppo scelto di movimenti che poi ogni praticante interpreterà a suo modo, secondo il suo personale stile di movimento, fino a costruirne di nuovi, di esclusivamente suoi.

Melodie cinetiche… “Nel Taikiken non esistono forme fisse” ed ancora “Il Taikiken mira a consentire a ciascun individuo di utilizzare i movimenti del corpo che gli sono più adatti. Questo è sia il pregio principale che una delle maggiori difficoltà del Taikiken. Una persona inizia a sbocciare come vero praticante delle arti marziali della scuola interiore solo quando è in grado di utilizzare i movimenti che sono intrinseci al proprio corpo. È proprio perché il Taikiken permette alla persona di sviluppare le proprie forme di movimento che a volte viene definito come privo di forme, ma dotato di esse.” Così si esprimeva il Maestro Kenichi Sawai, fondatore del Taiki Ken.

Melodie cinetiche attraverso la pratica di Yuri, le delicate mani che uccidono.

“Io sto condividendo la mia percezione, non la verità. La verità è nella tua esperienza”

(B. Bainbridge Cohen)

 

 



 

giovedì 17 aprile 2025

Le infinite vie dell’Energia e la Vulnerabilità


 


Pur profondamente contrariato che la salute sia andata in vacanza, trascurando di essermi compagna, non intendo rinunciare, per quel e per come posso, a vivere la mia quotidianità.

Eccomi alla sala Gnomo, all’interno dell’Università Cattolica, alla presentazione di due libri dedicati alla

Vulnerabilità

Interessante la presentazione, dove una delle autrici ricorda l’impulso che Brené Brown (1), nelle sue conferenze in rete, le diede nell’affrontare la vulnerabilità come risorsa. D’altronde anche io nei video della Brown trovai ispirazione e slancio per meglio definire il mio passaggio da una pratica marziale che, pur già staccandosi dai concetti di forza e durezza abbracciando invece flessibilità e dolcezza, ancora non aveva bene chiari i concetti teorici dentro i quali completare una pratica siffatta. (2)




Fare della vulnerabilità un’occasione di crescita e potenza, fu per me percorso immediato anche se non agevole. Percorso in cui più volte persi la direzione. Percorso lungo il quale persi anche più di un allievo, smarritosi perché accanto ad una ricerca continua che eludeva dogmi e certezze ora fioriva anche una epistemologia (3) del tutto nuova e lontana da quanto l’ambiente marziale dava per scontato, per assodato, per sicuramente condiviso. Un percorso di ricerca e di avventura non adatto a chi chiedeva certezze e rassicurazioni e, probabilmente, in cui io non fui in grado di sostenere i più deboli, i più fragili, mostrando loro, col brivido di attraversare le insidie del “bosco” (4), anche quanto ciò li avrebbe arricchiti e fortificati.

Sì che la Tradizione marziale, checché ne dicano machisti, muscolati, palestrati, fautori del “No pain no gain”, dei mille piegamenti (piegamenti, non flessioni!!) sulle braccia e delle sfiancanti serie di esercizi per gli addominali, dei volti truci e mai sorridenti (5), delle tecniche (waza) ripetute cento e mille volte, ha inscritto in sé concetti quali flessibilità, adattabilità, adesione e trasformazione della forza dell’opponente volgendola a proprio vantaggio.

“L’Aiki è un mezzo per raggiungere l’armonia con un’altra persona in modo tale che tu

possa farle fare ciò che desideri”

(M. Ueshiba 1883 – 1969 fondatore dell’Aikido)

 

“La forza interna è più sottile e meno immediata, ma non per questo meno potente. Essa incorpora aspetti come la fluidità, la consapevolezza e la capacità di adattamento. Comprendere e applicare la forza interna richiede dedizione e disciplina, poiché non è visibile e palpabile come la forza esterna”

(https://www.makoto.it/post/equilibrio-tra-forza-esterna-e-forza-interna-una-filosofia-delle-arti-marziali)

 

“La flessibilità può neutralizzare la forza bruta che fa di questa disciplina non solo una semplice arte marziale o uno sport ma una vera e propria filosofia di vita.”

(J. Kano 1860 – 1938 fondatore del Judo)

 




Ma torniamo alla presentazione dei due libri.

In particolare, mi lascia perplesso il ripetuto accostare “vulnerabilità” a successo. Come se la dolcezza forte della prima fosse di per sé garanzia di una prestazione vincente, come se la vulnerabilità fosse un’arma in più in vista del successo.

Espongo i miei dubbi, suscitando subito la risposta piccata di una delle autrici. La comprendo.

  • Da un lato è questo il momento in cui è lei sul palco, è lei una delle “regine” dell’evento, e questo mio avanzare dei dubbi incrina l’aura di momentaneo potere che le viene dato; difficile mantenere l’equilibrio, accogliere prendendosi il tempo di “masticare” quanto arrivato e poi donare una riflessione pacata; difficile, insomma, accettare concretamente di essere vulnerabili!!
  • Dall’altro, viviamo tempi in cui il pensiero collettivo è sempre teso a spronarci al successo, al superamento dei limiti, all’emergere dall’anonimato, dunque viene immediato, viene facile, quasi inconsapevole, accoppiare qualsivoglia stato emotivo ad un finale sempre positivo, sempre di successo. Beh, uno dei libri reca in copertina proprio questo mefistofelico accoppiamento!!




Eppure, per me, la forza dell’essere vulnerabile sta proprio nel rischio di essere travolti, schiacciati dalla prepotenza, dalla concreta possibilità di non raggiungere il traguardo perché frenati da ostacoli insormontabili.

Per tanti anni “vulnerabilità” ha fatto il paio con debolezza e gracilità, con uno stato emotivo da celare agli altri e di cui vergognarsi a fronte de “L’uomo che non deve chiedere mai” (6), dell’arroganza e prepotenza come manifesto di riconoscimento ed affermazione.

Io credo invece che riconoscersi vulnerabili è autentica forma di audacia, di coraggioso amore per il rischio, di consapevolezza che può accadere di fallire accettando il fallimento come una delle possibili risposte della vita. Essere vulnerabili è essere autentici.

“… e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarsi con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni,

nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi”

(E. Borgna 1930 – 2024 psichiatra e saggista in ‘La fragilità che è in noi’)




Chiunque pratichi davvero l’Arte del combattimento, leggendo quanto sopra, ha già capito l’importanza della vulnerabilità, di abitare un registro emozionale delicato non solo come parte integrante del vivere, ma anche come premessa fondante la capacità di essere individui autentici e, in quanto tali, capaci di accogliere e comprendere l’altro e l’ambiente.

Sarà scelta autonoma di ognuno che farsene di tale comprensione: Per prevaricare l’altro o per creare una relazione soddisfacente per entrambi.

Chiunque eserciti pratiche conflittuali di contatto ha già capito, spero, come esse possano essere di autentica qualità, di autentica crescita e trasformazione, solo ed unicamente se esperite a partire da emozioni delicate e sensibili. E a culo i vari macho man che affollano il teatro delle Arti Marziali portandovi il loro celodurismo, il loro pesante bagaglio di certezze e verità assolute, il loro “Uomo che non deve chiedere mai”.

Anche perché, come ci ricorda la filosofa Simone Weil: La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni immotivate, penosamente in balìa di ogni genere di cose, e di esseri altrettanto fragili o capricciosi. La nostra persona sociale, da cui dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso. (in ‘Attesa di Dio’).

 





1. Brené Brown 1965 –.  Accademica e ricercatrice. https://brenebrown.com/

 

2. Come sa chi mi accompagna da tempo, il mio procedere è sempre prassi – teoria – prassi di contro a chi invece privilegi teoria – prassi – teoria.

Il rapporto teoria-prassi rappresenta uno dei nodi cruciali dell’epistemologia pedagogica. Si tratta, indubbiamente, di un rapporto da concepire in chiave di unità dialettica: la teoria, senza prassi, è vuota; così come la prassi, senza teoria, è cieca. In altre parole, una teoria senza relazione con i problemi delle pratiche educative finisce per risultare astratta ed inefficace; ma, al tempo stesso, una prassi che si esaurisce nel far fronte in maniera immediata a tali problemi, senza lumi teorici, rischia di vagare nel buio, di andare per tentativi.” (M. Baldacci in ‘Teoria, prassi e “modello” in pedagogia’)

 




3. ‘Nella filosofia del sec. 19°, la parte della gnoseologia che più in particolare si occupava dei metodi e dei fondamenti della conoscenza scientifica. In un’accezione più moderna e corrente, che prescinde dalla priorità dell’indagine gnoseologica e preferisce insistere sull’esemplarità della scienza positiva, s’intende per epistemologia l’indagine critica intorno alla struttura e ai metodi (osservazione, sperimentazione e inferenza) delle scienze, riguardo anche ai problemi del loro sviluppo e della loro interazione, sinon. quindi di filosofia della scienza; può riferirsi anche all’analisi critica dei fondamenti di singole discipline: epistemologia della matematica, e. della fisica, ecc., o della conoscenza in quanto tale (e. genetica, e. evoluzionistica)’.

(https://www.treccani.it/vocabolario/epistemologia/)

 

4. Letteratura, fiabe e psicoanalisi ci ricordano l’importanza dell’attraversamento del bosco come metafora della discesa nel nostro sé più profondo per uscirne adulti autodiretti, coraggiosi, vitali ed erotici: “Andate nel bosco, andate. Se non andate nel bosco, nulla mai accadrà, e la vostra vita non avrà mai inizio” (C. Pinkola  Estés, scrittrice, poetessa e psicoanalista). Che, nelle Arti Marziali realmente tali, è il necessario attraversamento e la compenetrazione tra Bujutsu, la pratica di uccidere per non essere uccisi, e Budo, la Via per divenire un uomo migliore: “Termine utilizzato nel XX secolo per designare le arti marziali con un fine prevalentemente ‘pacifico’ che indicava, oltre a discipline fisiche e di combattimento, anche dei concetti di natura etica, filosofica e morale” (L. Frédéric in ‘La Arti Marziali dall’A alla Z’)

5. “C’è una gran differenza tra il vivere con una espressione gentile ed il vivere con una espressione truce. Col passare del tempo non solo cambierà l’espressione degli occhi, ma cambieranno anche il viso della persona e la sua visione della vita“ (K. Tohei 1920 – 2011 Maestro 10° dan Aikido in ‘ La coordinazione mente – corpo’)

6. Nota pubblicità televisiva degli anni ’80 che offriva un’immagine di quella mascolinità, che oggi definiremmo tossica, per cui si riconosce un vero uomo dal fatto che non debba chiedere nulla ma prendere ciò che vuole.

 

 


 

 

 

 

sabato 12 aprile 2025

Perché mi piace il Kenpo Taiki Ken

 

Spirito Ribelle - Pa Kwa

Chissà, magari il compito di ogni individuo che voglia farsi adulto è abitare il cielo immenso costellandolo di stelle. Non per riempirlo, che quel vuoto buio ci parla il linguaggio del mistero e del silenzio, “vuoto fertile” (1) di stampo gestaltico, e riempirlo mi parrebbe sconcio e superfluo, quanto per tessere fili invisibili di danza capaci di giocare a rimpiattino e rincorrersi tra una stella e l’altra. Si addensa, così, una melodia cinetica in cui, Tao e sempre Tao, vuoto e pieno si muovono insieme amalgamandosi e insieme scontrandosi.

Fu il poeta Ezra Pound a scrivere “Quello che veramente ami non ti sarà strappato. Quello che veramente ami è la tua vera eredità”.


Amando io il vivere, il vivere di corpo, di corpo fisicoemotivo, e dedicandomi alla pratica delle Arti Marziali da quasi mezzo secolo, convengo che ciò che davvero ami ed a cui dedichi molto, se non tutto, di te stesso, rimane.

  • Ho praticato diverse Arti Marziali e sport da contatto guadagnando gradi superiori e qualifiche di rilievo.
  • Ho attraversato

una prima fase di ricerca dell’Arte migliore, quella completa e più efficace in combattimento;

una seconda di miscelazione delle diverse Arti tra di loro perché questa miscela non lasciasse fuori niente né di tecniche /tattiche né di strategie.

  • Infine (era ora, ma almeno io ci sono arrivato: Quanti altri?) sono approdato alla fase in cui comprendere che è il praticante il centro, l’attore protagonista, con il suo personale ed unico corpo / corpo fisicoemotivo dentro cui far attecchire il sapere del corpo in movimento. Ovvero l'insieme delle informazioni che il corpo stesso fornisce sul proprio movimento, posizione e forza applicata aggiustandole ed adattandole a seconda delle situazioni. Non si tratta né di eleggere una disciplina come l’unica valida né di fare una ‘marmellata’, una sommatoria di pezzi dell’una e dell’altra. il che risulterebbe solo fragile come un puzzle.
Eccomi karateka



A quel punto, una ventina e più di anni or sono, non potevo che innamorarmi di un’Arte, fino ad allora praticata insieme ad altre, di cui il fondatore Wang Xiangzhai diceva: “Non esiste un equilibrio assoluto, quando parliamo di equilibrio, parliamo della capacità di controllare l'equilibrio in questo preciso momento” (2)

Liberato dalla meta, dall’ansia di approdare ad un risultato, pratico errante e vagabondo, pratico per il piacere ed il gusto di percorrere il cammino della conoscenza di me attraverso la conoscenza di me corpo; mai gravido di un carico prestabilito, una tecnica da imparare, una sequenza da memorizzare, e sempre pronto a rinnovarmi, perché essere artista, tanto più artista marziale non è mai, non può essere mai sgranare un rosario recitando devozioni.


ZNKR alle origini



Pare generalmente accettato che la spinta originaria alla creazione dello Yi Quan / I Chuan, il fondatore Wang Xiangzhai la ebbe perché disgustato dalle rigidità formali, dalle pretese dogmatiche, in cui versavano gli allenamenti convenzionali e ripetitivi dei principali stili ‘interni’ di Kung Fu: Tai Chi Chuan, Pa Kwa Chuan e Hsing’I.

Qualcuno una riflessione su come si insegna e si apprende ancora oggi nella pratica di Arti cinesi, giapponesi, vietnamite, filippine, tra ‘copia e incolla’ e ricerca ossessiva dell’imitazione perfetta, avrebbe voglia di farla?

Quando alcuni allievi proposero al fondatore di cambiare il nome della sua Arte in Dachen Chuan ((‘pugilato del grande risultato’ o ‘pugilato grande e completo’) questi rispose: “Non ci sono limiti allo sviluppo dell’Arte Marziale, perché dovrei chiamarla ‘grande risultato’?” (3)

Qualcuno una riflessione sui ‘sistemi’ di questa o quell’Arte che presuppone un percorso con inizio e fine solo al termine del quale l’allievo può essere considerato ufficialmente ‘arrivato’, ‘esperto’, ‘padrone’, avrebbe voglia di farla?

Il sistema nervoso è molto importante e il sistema nervoso è influenzato dall'attività mentale – spirito”. Scriveva già cinquant’anni or sono Yao Zonggxun (4), relegando in secondo piano il lavoro muscolare.

ZNKR Kangeiko - stage invernale a. 2013


Oggi, nel terzo millennio, nelle Arti Marziali ancora l’attenzione prioritaria è sui muscoli, sul potenziamento muscolare e l’allungamento muscolare. Oggi ancora l’attenzione principale è sul corpo come Korper e non Leib (5), sul tentativo di unire corpo e mente come fossero due cose diverse. E questo nonostante il sapere taoista, la fenomenologia occidentale, le neuroscienze (6) e… lo Yi Quan!!

Perché dello Yi Quan

ho scelto la versione giapponese?

  • La mia formazione marziale è iniziata con un’Arte giapponese, il Karate stile Shotokan, ed è proseguita affiancando alla pratica regolare di questo stile esperienze prolungate o saltuarie di altri stili di Karate come Shingakukai, Wado Ryu, Shito Ryu, Goju Ryu, e, dunque, le mie fondamenta sono propriamente giapponesi.
  • Il primo incontro con lo Yi Quan nel 1980 o giù di lì, avvenne nella versione giapponese grazie al Maestro Tokitsu Kenji. Riferimento che, nei decenni, pur saltuariamente, non ho mai perso.
  • Quando decisi di approfondire lo studio di quest’Arte avevo la possibilità di scegliere tra un comodo studiare nella mia città, Milano, presso il Maestro Yang Li Shen che vi si era appena trasferito o un molto meno comodo recarmi regolarmente a Firenze presso il Maestro Stefano Agostini che, con il Maestro Sun Li, diffondeva uno stile di Taiki Ken, lo I ken. Pur non potendo certo disconoscere la validità del Maestro Yang Li Shen, preferii la scomodità del viaggiare Firenze – Milano. (7)
  • Infine, ho sempre aborrito la traduzione di Yi /I che veniva data qui in Italia ed appiccicata allo Yi Quan / I Chuan, ovvero ‘Intenzione’, dunque ‘Pugilato dell’intenzione. Mi sono invece ritrovato nella traduzione che ne dà la sinologa Giulia Boschi ‘Spontaneità, su cui concordava, in una conversazione privata avuta durante uno stage presso di lui, il Maestro Xia Chaozhen e che è propria anche dei Maestri che lo Yi Quan insegnano in Francia. C’è una bella differenza tra proporre una pratica basata sull’intenzione “Orientamento della coscienza verso il compimento di un’azione, direzione della volontà verso un determinato fine; può indicare semplicemente il proposito e il desiderio di raggiungere il fine, senza una volontà chiaramente determinata e senza la corrispondente deliberazione di operare per conseguirlo” così la definisce il Vocabolario Treccani, o sulla spontaneità “La caratteristica, il fatto di essere spontaneo e non calcolato o affettato, come tendenza abituale a comportarsi con naturale franchezza e immediatezza” (ibidem).

Spirito Ribelle. Maki mani che avvolgono



Giacomo Dall’Ava scrive: “Le azioni sono inscritte nella carne ancor prima che l’intenzione consapevole agisca e detti i comandi. Insomma, non è che abbiamo un corpo ma siamo corpo” (‘La reazione all’ambiente che ti comanda’ in ‘La chiave di Sophia’ n.12 giugno – settembre 2020). Chiunque stia leggendo capisce subito la differenza, lo spartiacque, che rimanda, ohibò!!, a quella tra Korper e Leib, tra la solita pratica ripetitiva e dogmatica ed il percorso creativo, totale che, mi pare di poter affermare senza essere smentito, stava alla base della nascita dello Yi Quan e della sua versione giapponese, il Taiki Ken.

“Non ci sono forme fisse nel Taikiken. Sebbene questo libro presenti metodi di difesa e attacco, sono solo esempi dei tipi di attacchi e difese possibili. Praticare per perfezionare Zen e Hai costituisce la base dell'allenamento. Quando si entra in contatto con un avversario, il proprio corpo deve essere in grado di muoversi in completa libertà. Costringere persone grandi e piccole a praticare le stesse forme non ha senso. Inoltre, un'eccessiva attenzione alle forme uccide solo la libertà di movimento. Il Taikiken mira a consentire a ogni individuo di usare i movimenti del corpo che gli si addicono”

(K. Sawai ‘Taikiken The Essence of Kung-fu’. Traduzione dall’inglese mia)

Letto quanto sopra, comprendi perché 

mi piace il Kenpo Taiki Ken?

E a te?

 

 


 

 

1. https://scuolacounselinggestalt.it/v-come-vuoto-fertile/#:~:text=La%20sensazione%20era%20quella%20di,Ci%20abbracciammo.

2. He Jinping ‘Wang Xiangzhai – Contradictions old man’ traduzione dal cinese all’inglese di A. Kalisz; dall’inglese all’italiano, mia. In ‘Collection of essays about Yiquan published at A. Kalisz’s site in years 1996 – 2007.

3. Master Yao Chengguang answers question; traduzione dal cinese all’inglese di A. Kalisz; dall’inglese all’italiano, mia. Ibid.

4.Yao Zongxun ‘General characteristics of Yiquan”; traduzione dal cinese all’inglese di A. Kalisz; dall’inglese all’italiano, mia. Ibid.

5. Leib è il corpo vivente, abitato, di cui faccio esperienza, che è me. Körper è il corpo-cosa, il corpo nella sua materialità, corpo oggettivizzato, quello che come una maglia allungo, stiro, accorcio, ripiego come se fosse altro da me, come se non fosse me e come tale suppongo (erroneamente) non mi influenzi fino a determinarmi nel pensare, negli stati d’animo, nell’agire a seconda di come lo tratto.

6. “La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello” (A. Damasio ‘L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano)

7. A conferma delle capacità del Maestro Yang Li Shen, posso scrivere che due miei allievi, già plurigraduati cintura nera presso di me e con qualifica di Maestro, i quali stavano cercando una loro autonoma strada marziale, studiarono per diversi anni col Maestro Yang Li Shen. Ambedue raggiunsero la qualifica di Insegnante e gradi superiori, quarto e sesto, entrando nella ristretta cerchia dei discepoli a lui più vicini, almeno fino a quando il Maestro lasciò l’Italia e la sua organizzazione si sbriciolò. Io però non rimasi affatto colpito dal suo modo di insegnare, che mi risultava dogmatico e per nulla corrispondente allo spirito di quell’Arte come descritto invece dal Maestro Guo Gui Zhi: “D. Ci sono allenamenti codificati nel Dacheng Chusn / Yi Quan? R. No, nulla di predeterminato. (omissis) Il lavoro di visualizzazione, di sensazione e sullo spirito fa parte del metodo interno. Yi si può tradurre con volontà e spirito”. (Intervista di cui ho conservato traccia scritta ma non il riferimento bibliografico)

 

Spirito Ribelle. Sempre nuovi giochi di formazione