giovedì 9 febbraio 2012

In un mondo migliore

“Non se colpisci duro la prima volta”

Bella, solida, lapidaria, questa frase che Christian, uno dei giovanissimi protagonisti, pronuncia in “In un mondo migliore", film danese della regista Susanne Bier.
Film di grande pregnanza maschile; di forti tinte educative quanto di dubbi sui contenuti di questo “ex ducere”, condurre fuori; di rapporto padri e figli.
Un bel film asciutto, schietto. Emozionante.
Allora, “random”, ecco alcune mie impressioni (1)
·         Già dopo una manciata di minuti mi sono emozionato, lacrime agli occhi. E me ne vanto: che bello lasciarsi emozionare dagli sguardi di bimbi, da una voce, dal chiarore della luna, dallo sforzo sul viso di un giovane corridore, dal gioco di luci di un tramonto. Qual è l’ultima volta che ti sei emozionato fino alle lacrime ? E … la penultima ?
·         Non sempre le azioni eclatanti, gli uomini d’avventura, sono i più coraggiosi. Quanto coraggio  c’è, invece, nel “tirare la carretta” ogni giorno, purché consapevolmente e con entusiasmo ? Ogni giorno confliggere nelle relazioni con chi ci sta accanto in un’anonima città, in un anonimo ufficio, in un anonimo appartamento.
·         Quanta superficialità nelle istituzioni e in chi le anima, o dovrebbe “animarle”. Quanta sbrigativa voglia di mettere tutto a tacere, di chiudere gli occhi di fronte al bullismo, alle intemperanze ed ai dolori di ragazzini che pure, all’istituzione scuola, agli “insegnanti”, sono affidati ogni mattina, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Educatori / formatori o passacarte ? Piuttosto sono più o meno capaci erogatori di nozioni, di calcoli matematici come di regole linguistiche, che guide lungo il crescere della vita. “Lo studente deve essere il centro di ogni programma da svolgere (omissis) i nostri programmi devono cominciare con quello che egli sente, con quello di cui si occupa, che teme, per cui si commuove” (“L’insegnamento come attività sovversiva” di N. Postman). Nulla di tutto questo nell’istituzione scolastica.
·              Quanti errori, nello scorrere delle immagini, vedo di me padre con Kentaro, il mio primo figlio. Errori, mancanze, che ora pesano come macigni su di lui, inficiandone lo sviluppo adulto. E chissà quali, che io non so, non riconosco, sto caricando sulle minute spalle del mio giovane Lupo, otto anni di vivacità e dolcezza. Come mi è difficile essere padre, buon padre.
·         Quanto di me nella rabbia violenta del giovane Christian. Rabbia, odio verso il mondo, che hanno connotato gli anni della mia adolescenza. Com’è stato doloroso e difficile uscirne. Com’è tutt’ora difficile accettare e tenere a bada la “bestia” (il “passeggero oscuro” lo chiama Dexter, tormentato personaggio dei libri di Jeff Lindsay poi di una fortunata serie televisiva) che rantola in un angolo profondo di me.
E mi vengono in mente la parole di don Mazzi, pronunciate in un forum tra il “gelo” ( Ma va ?!?!?) degli addetti ai lavori, per lo più assistenti sociali, educatori, psicologi. Parole di attenzione, d’esortazione all’attenzione verso i ragazzi, gli adolescenti “normali”. E’ a loro che dovrebbero andare le maggiori attenzioni di chi si occupa di devianza. A loro finché sono ancora “in carreggiata”, per aiutarli a restarci “ in carreggiata”. Questa sì che sarebbe prevenzione, ovvero occuparsi di coloro nei quali il malessere è ancora latente, inesploso. Prima che sia troppo tardi.
Che fortuna ho avuto io in più d’una occasione (toh! ho iniziato i miei anni bui proprio come il protagonista: bombe rudimentali a far saltare auto), che fortuna ha Christian, nel film. Ma una società civile si affida alla fortuna di questo e quello o opera conoscendo i disagi, dialogando, accompagnando i suoi futuri cittadini adulti perché si tengano lontano dal crimine ? Una rete di prevenzione ed assistenza aspetta che i pesci vengano a galla o avvolge e permea di sé il branco quando è ancora in acqua ?
·         Il dubbio, il dubbio, dall’inizio alla fine del film. Come mi scrisse un ex allievo e amico carissimo, commentando in privato il mio post sui bambini che non si azzuffano più:
-       crescere il figlio nel rispetto pedissequo delle leggi, delle consuetudini, della morale “per bene”, sperando che la violenza, la prevaricazione dilagante lo risparmino, non lo “mettano sotto”;
oppure
-       crescerlo in grado di difendersi da sé, anche al di fuori delle regole, col rischio che il pensiero dominante, la cosiddetta convivenza civile, lo emarginino, fino a storpiarne l’animo e la vita ?

    “Come se non fosse più una madre. Come se non fosse mai cresciuta
Il femminile, il materno, dov’è ora nel film come nel vivere quotidiano ? Quando c’è, che femminile / materno è ?

Sì, proprio un bel film.

1)     Una bellissima recensione, a cura di Simona Argenteri, la trovate in “Mente & cervello” - Ottobre 2011.

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