lunedì 15 maggio 2017

Bishamonten Maggio 2017



Sabato 13

 
Capita, a volte, di avere un mondo intero nel cuore e non conoscerlo, tanto meno mostrarlo agli altri, con le parole.
Allora mi domando come e poi faccio finta di niente, come se il cuore fosse solo un battere ritmico, come se il tempo passato e quello futuro non danzassero mai per me e per chi mi sta accanto.
Succede di giorno, succede di notte, mai solo e sempre immerso nei sogni miei, sogni che parlano anche di altri.
Però credo che il mio cuore, ogni cuore, debba danzare all’aperto, legando in un unico filo sottile tutto ciò che sta fermo, tutto ciò che si muove. E lo faccio col corpo, che è insieme cuore e respiro, cuore e pancia, cuore e pensiero, cuore e …

Lo faccio anche oggi, al terzo appuntamento Bishamonten. Lo faccio mostrando e lasciando annusare gli odori ed i ritmi di un’avventura di vita, sempre più grande di ognuno di noi.
Perché le tracce degli animali, dall’inizio della stella marina che annaspa e va oltre, sirena e delfino, e poi felino e via, di fiera in fiera, fino al bipede che siamo noi, ci sono rimaste dentro.
Sono rimaste, a volte sopite a volte sfuggenti, a volte legate alla catena a volte in “libera uscita”.
Quelle tracce rimaste che ci parlano di noi e delle nostre pulsioni, delle nostre passioni. Dei fantasmi e delle ombre, ma anche dei desideri di volo e di libertà assoluta.
Ci scopriamo sorridenti, felici con poco, forse tornati bambini a giocare con l’animale che ci rappresenta, con cui, qui, in un luogo sicuro, in un gruppo sicuro, possiamo tornare a dialogare.

Ed è il tempo della gru, del volo, della leggerezza e dell’equilibrio. E’ tempo di viversi gru, oltre il timore di abbandonarsi e di essere fragile, di associare cedevolezza a sottomissione, di difendersi sempre, sempre sulla difensiva. E’ tempo di sentire e superare la spasticità nei muscoli estensori e flessori.

Poi “Floating Bridge”, interpretato tanto lentamente quanto fluido e scorrevole nel variare d’altezza e distanza; un tocco pressante che sfiora e non dimentica, che accompagna senza interferire.
Un silenzio sottile tra i rumori dei corpi che attraversano il luogo, i respiri che rimbalzano contro. Il confine della pelle, della stoffa è zona di contatto, luogo di domande: “Cosa mi aspetto da te?”, “Cosa ti aspetti da me?” Quando invece l’unica domanda possibile è “Cosa sta succedendo tra di noi?”. L’unica in grado di condurci a risposte conflittuali anche, ma chiare, distinte, intellegibili. Chissà se tra uno sbuffo, un’imprecazione ed una risata, qualcosa del nostro vivere quotidiano tra rapporti di coppia e di lavoro e familiari ci è balzato in gola a ricordarci che qui, in Dojo, è la pratica del fuori che si rappresenta, che ci rappresenta.

Ora, il gioco che ti porta immobile, ti fa lentamente sparire, oscillare, flettere e rientrare.
Che sia con l’ostacolo di una pallina da tennis o perché la regola richiede di restringere la base, comunque sempre incerta, quasi fragile.
Ma la nostra pratica Kenpo Taiki Ken ci mostra la risposta forte e potente della vulnerabilità, della fragilità che si fa decisa e impetuosa. A scoprire che nella vulnerabilità, nella fragilità, si celano valori di sensibilità e delicatezza e fiera dignità; di intuizione dei segreti e dell’invisibile che sono nella vita e che permettono di entrare in empatia e persino simpatia negli stati d’animo e nelle emozioni, di chi è altro da noi.
Certo, all’accettazione e conoscenza della propria vulnerabilità, si giunge solo lungo il cammino che porta alla nostra interiorità e che costa fatica seguire, perché mostra le nostre paure e con esse le nostre speranze cadute nel vuoto, dalle quali è più comodo allontanarsi o negarle, vivendo come se non fossero in noi.
Così, una fragilità, una vulnerabilità, che diviene flessibilità, a capire, interpretare il ritmo della danza, dello scontro di coppia … che qui, in Dojo, è la pratica del fuori che si rappresenta, che ci rappresenta.
Che sia colpirsi o squilibrarsi, spingere o tirare, che siano pugni, gomitate, calci, leve articolari e proiezioni e “Grazie per avermi fatto del male. Non lo dimenticherò”. Lascerò che scorra nelle vene, che batta forte dentro il cuore, a sentire che sono vivo e sempre, daccapo, posso ricominciare, posso mutare la rotta di questa mia vita, fragile e incerta, che il Tempo Maggiore sa già quando tagliare, e che io non posso lasciarmi scappare. Scappare così, senza capire per quel che posso e lottare per quel che so.
Che, ormai lo sai tu e lo sanno tutti quelli che con me hanno praticato, anche quelli che di me hanno solo letto,

che qui, in Dojo, è la pratica del fuori che
si rappresenta, che ci rappresenta.

Chiudiamo in cerchio, il “Sorriso Taoista” è ora il nostro fare, che il sorriso sul volto è il sorriso nel cuore.
Quel cuore di ognuno, che per ognuno, racchiude un mondo intero dentro.











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