Giovedì
19 Settembre mi hai lasciato solo.
Sembrava
ce la potessi fare, nonostante un ictus e le complicanze all’intestino,
nonostante l’età, over 95. Invece no: una telefonata dall’ospedale, una corsa (
va bè, “corsa” nel traffico insensato di Milano non c’azzecca un gran ché), la
porta della camera chiusa e quando i dottori sono usciti tu te ne eri appena
andato.
Mi
hai lasciato un dolore immenso, un buco nero profondo e che fatico a guardare.
Ma, come ho detto ad alcuni amici, non posso certo lamentarmi: quanti possono
vantare la compagnia del padre per tutti questi anni in cui mi sei stato
accanto: 61 anni. Io, fino ai 61 anni, ho avuto con me il mio papà !!
Sarei
stolido verso la vita e egoista verso gli altri, quegli altri che il papà l’hanno
perso a 30, a 40 anni ed alcuni anche prima.
Però
il dolore resta. Ed è forte e malevolo.
Mi
consola sapere che hai smesso di soffrire; che tu, uomo dalle mille risorse e
dalla grande vivacità costretto all’inedia dall’età e dagli acciacchi, hai
smesso di chiedere di farla finita. Finita con una vita che, ormai, non ti dava
più nulla, che era una canzoncina dimessa e stonicchiata per te che hai cantato
a voce piena le più belle melodie che un uomo possa conoscere.
Un’infanzia
povera da cui sei uscito contando solo sulle tue forze. Una giovinezza allegra
per quanto possa esserlo per chi veniva dal “proletariato” e viveva sotto la
dittatura fascista.
Poi
gli orrori della guerra. Tu imbarcato sulla nave Neptunia, il siluro che la
colpiva facendola affondare, e tu, che manco sapevi nuotare, precipitato in
acqua, retto da un modesto salvagente di sughero, poi aggrappato ad un
cadavere, prima di essere tratto in salvo. Una sosta all’ospedale e via: nel
deserto africano, male armati ed equipaggiati, a portare in quelle terre
l’orgoglio nazionale di una nefanda dittatura espansionista. Le battaglie, le
scaramucce, la vergogna per quelle tue lacrime, “le uniche” ci tenesti a dirmi, a Tobruk, dove tanti tuoi compagni
d’arme andavano contro il nemico e pochi erano quelli che tornavano.
La
menzione d’onore che venne recitata per te davanti ai tuoi compagni, la granata
che ti ferì ad una coscia, I tormenti di El Alamein e la cattura da parte delle
truppe inglesi.
Ti
portarono a Manchester e lì le cose cambiarono. La tua vivacità, la tua voglia
di vivere, ti regalarono anni spensierati: una professione rapidamente
imparata, il cuoco, come la padronanza della lingua di casa, l’inglese, e,
complice quegli occhi grigi di gatto e la stazza, non restavi certo solo la
sera…
Ma a
casa c’era una donna ad aspettarti, insieme alla tua terra d’origine.
Ti
rimboccasti le maniche e via, famiglia con due figli e lavoro in fabbrica. Però
non smettesti mai di prendere la vita alla tua maniera. La passione per il
modellismo funzionante, soprattutto navi e treni, che riempivano la casa. Le
tue urla di biasimo, perché io mi divertivo a farli scontrare quei tuoi
preziosi treni, i pomeriggi insieme, tra fontane e laghetti, a far andare le
navi che costruivi con le tue mani. Le Domeniche in cui sempre portavi in
tavola un cabaret di paste. La mia riluttanza a seguirti fuori casa, io che
amavo stare a chiuso in cucina, a inventare storie interminabili con cow boy e
pellerossa.
Sei
sempre stato, per così dire, creativo e “diverso”: portavi per strada una nave
di oltre un metro e mezzo scarrozzandola su un passeggino per bimbi che avevi
adattato all’uopo; fosti il primo, in Italia, a disegnare orditi sui collant da
donna, e poi fu il boom, la moda; portavi appeso al petto, in un seggiolino
ideato e costruito da te, mio figlio Kentaro e di lì a poco commercializzarono
i marsupi per neonati. Bastava farti una richiesta e tu, penna e carta, la
traducevi prima in un disegno, poi … eccola realizzata. Anche se, sovente, il
merito veniva attribuito ad altri: i titoloni dei giornali per quel modellino
che aveva sbancato alla gara, col nome del proprietario accanto e nemmeno una
accenno a te, che per lui lo avevi costruito; le belle parole per le tue invenzioni
sui collant, ma prestigio e soldi a chi si accaparrò l’idea; anche se poi la
tua ingenuità, a volte, ci lasciava stupefatti: quel marchingegno che
costruisti per far scomparire le carte da gioco dentro la manica … proprio non
ti venne il sospetto che il committente fosse un baro di professione ?
Ci
furono anche gli anni nient’affatto idilliaci. Quando la violenza che mi rodeva
dentro esplodeva incontrollata e la sbornia ideologica del ’68 ci portarono
prima a non capirci, poi a scontrarci anche fisicamente.
Poi,
piano piano, riprendemmo ad “annusarci”. Anche se per te ero sempre un tipo
strano ( ma dai, chissà da chi avrò preso ?!). Quando venisti con me ad un mio
abituale giorno di lavoro, tra riunioni con animatori sportivi, incontro con un
assessore comunale e assemblea con dei genitori e tu, abituato a vedere i tuoi
lavori crescere davanti a te, grazie al tuo ingegno ed alle tue mani, la sera,
concludesti con uno sconsolato ”Se piace
a te !”. Che lavoro poteva essere, per te, parlare e parlare e parlare !!
Ecco,
questa è una delle doti che ti riconosco: quand’anche non mi capivi, però mi
accettavi o, almeno, anche se in modo burbero, mi sopportavi e, a tuo modo, mi
proteggevi.
E tu
ci sei stato nella mia prima casa con Donatella, laddove alcuni mobili li
costruisti tu e sempre tu correvi in nostro soccorso quando Kentaro era malato
e noi dovevamo andare al lavoro ed ancora tu, in estate, a giocare con lui ore
ed ore, a costruirgli il ring dei wrestler o l’auto radiocomandata e tu a
prenderlo all’uscita di scuola.
Ci
sei stato nella mia prima casa con Monica, a scegliere insieme gli
elettrodomestici per poi regalarceli e a realizzare l’armadio grande.
Ci
sei stato nell’aprire il Dojo, per costruire gli spogliatoi, per mettere il
canniccio, per appendere il sacco, per stendere il linoleum. Io a farti da
“magut”, da aiutante da te sempre bistrattato e rimbrottato: proprio non
digerivi che, a parte menare le mani, i lavori manuali per me fossero fonte
continua di impacci ed impicci.
Poi
l’età avanzata ti ha impedito di essere quello stesso nonno grandioso anche per
Lupo, poi la sordità, poi quelle che il poeta ebbe a chiamare “le ingiurie del
tempo”.
Infine
l’isolamento: per te che scappavi in Svizzera a vedere i treni o a Genova per
vedere le navi; che passavi ore ed ore nella tua cantina adattata a
laboratorio, tra tornio, frese e marchingegni d’ogni genere, che a tutte le ore
ricevevi telefonate di amici e clienti perché facessi loro una locomotiva
in miniatura o costruissi quel pezzo di
ricambio di una moto da cross che non si trovava più in commercio, perché
miniaturizzassi un cannoncino della seconda guerra mondiale perfettamente
funzionante o riparassi un frullatore; che leggevi tutto il quotidiano,
dilettandoti anche con le pagine d’economia; ecco, per te quella forzata
inedia, quello stanco sopravvivere, era già una fine.
Addio
per sempre, papà.
Il giorno in cui mi vedrai vecchio e non
lo sarò ancora, cerca di
comprendermi...............
se mi sporco quando mangio e non riesco
a vestirmi.....abbi pazienza.
ricorda il tempo che ho trascorso ad
insegnartelo.
se quando parlo con te ripeto sempre le
stesse cose.....
non mi interrompere...... ascoltami.
Quando eri piccolo, dovevo raccontarti
ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.
Quando non voglio lavarmi, non
biasimarmi e non farmi vergognare...
Ricordati quando dovevo correrti dietro
inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.
Quando vedi la mia ignoranza delle nuove
tecnologie , dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto
ironico, ho avuto tutta la pazienza per insegnarti l'abc.
Quando, ad un certo punto, non riesco a ricordare o
perdo il filo del discorso .... dammi il tempo necessario per ricordare e se
non ci riesco non ti innervosire ..... la cosa più importante non è quello che dico,
ma il mio bisogno di essere con te ed
averti li che mi ascolti.
Quando le mie gambe stanche non mi
consentono di tenere il tuo passo, non trattarmi come fossi un peso .
Vieni
verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l'ho
fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.
Quando dico che vorrei essere morto...
non arrabbiarti. un giorno comprenderai. che cosa mi spinge a dirlo.
cerca di capire che alla mia età non si
vive, si sopravvive.
Un giorno scoprirai che, nonostante i
miei errori, ho sempre voluto il meglio per te e che ho tentato di spianarti la
strada.
Dammi un po' del tuo tempo, dammi un po'
della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa
allo stesso modo in cui io l'ho fatto per te.
Aiutami a camminare, aiutami a finire i
miei giorni con amore e pazienza, in cambio io ti darò un sorriso e l'immenso amore che ho sempre
avuto per te.
Ti amo figlio mio e prego per te, anche se mi
ignori
http://www.youtube.com/watch?v=CvFH_6DNRCY
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