“Due
strade divergevano nel bosco ed io… io scelsi quella meno battuta e questo fece
la differenza”
(R. Frost)
Pratica
del combattere, formazione marziale, formazione allo scontrarsi duro e
incessante, sempre mutevole. Come avviene ogni dì, con noi stessi e con gli
altri. Sempre che a noi stessi non mentiamo, fingendo ed inanellando perle
scadenti su di un filo che, con gli anni, pesa quanto una catena. Sorta di
collana degli inganni e delle bugie, delle proiezioni sugli altri e delle fughe
vigliacche da sé, che, col trascorrere del tempo, diviene una massiccia catena
della schiavitù.
E
siamo qui, forse, mi auguro, cacciatori di quella preda che siamo nuovamente e
solo noi, cercatori di quell’oro e di quelle miserie che si trovano
innanzitutto dentro di noi, viaggiatori intrepidi dentro quel territorio
infinito e mutevole che, ancora una volta, siamo noi.
Altrimenti,
che ci faremmo al freddo, esposti alle legnate gelide del vento o del compagno
di fronte ? Che ci faremmo, nell’ora buia che raccontano le fiabe del terrore o
ai primi sorrisi di un sole incerto, a tirar di coltello o a danzare Tai Chi ?
Che
ci faremmo, dagli amici dell’Agriturismo “Il Palazzino, in quel di Maserno –
Montese, per il nostro Tradizionale Kangeiko,
lo stage invernale ?
Almeno
per me, questo è il sentire autentico, anche doloroso, ma mai banale, fittizio.
Piuttosto sempre a vivere di autentica vitalità, anche quando permeata
dall’abbraccio dolente della melanconia o avvelenata dai miasmi acri del “mal
di vivere”. A lottare con e contro una realtà psichica, fisicoemotiva, scissa
ed alienata per abbracciare trasformazione e creatività, violando così i
cancelli della delusione del desiderio, le pulsioni di annullamento e di
stolido oblio drogato.
Danziamo
Tai Chi Chuan, ascolto del corpo e
traslocazioni spaziali generose, contenuto forte in una forma fluida
intimamente connessa. Chi è “nuovo” all’esperienza, scopre un’Arte ben lontana dalla ginnastica che viene
mostrata, e venduta, ovunque: goffa paccottiglia di nomi cinesi, figure di una
natura e di una cosmogonia animalesca posticcia, al servizio di gesti sconnessi
e malconci. Scopre una fare che amplia le risorse del movimento, libera
dolcemente parti del corpo prigioniere di ogni senso di colpa e di
inadeguatezza, forgia nuove vie di comunicazione ed espressione artistica, fino
a denudare ogni resistenza del praticante perché questa resistenza egli accolga
come parte integrante di sé.
Lottiamo,
ci scontriamo, di pugni e di calci, di gomitate e di leve articolari, di
proiezioni al suolo e di strangolamenti, terreno grande del nostro fare Kenpo.
Facile
occuparsi solo del rissare, del “menar le mani”, del prevaricare l’altro.
Preferisco invece guidare i praticanti lungo l’esplorazione delle loro
resistenze motorie, dei movimenti parassiti, dispersivi, forzati. Quelli che
mostrano impietosi la difficoltà, persino l’ansia, dell’individuo
nell’accettarsi come nell’accettare lo sguardo (il giudizio) degli altri;
dell’individuo che cala, pesante come una mannaia, un giudizio negativo su ogni
suo gesto ancor prima che questi sia ultimato; che si fa sordo di fronte al
canto delle emozioni; che sfoggia muscoli e sudore machista per non guardarsi
nudo dentro; che inanella gesti belli, quelli che il Karate d’Okinawa chiamava
spregiativamente “la mani fiorite”, per tinteggiare di nuovo un corpo/cuore
distante.
Le
mani dispensano energia nello spazio così come i piedi, forti nel terreno, ne
assorbono l’energia. E sono le coltellate feroci del nostro Knife Kenpo Fencing. Sono tagli a
vorticare a ridosso della pelle del compagno, a segnargli di rosso,
striature fameliche nel loro chiedere
sangue e tessuti da lacerare, il viso e la gola. Acciaio luccicante o brunito,
comunque strumento di macellazione e
morte.
Forme
patenti, ineludibili e terribilmente sincere, di ogni relazione sana. Quelle
che, nascoste e “politically correct”, sono il rispetto e l’interesse per
l’interlocutore e ciò che rappresenta, l’ascolto simpatico / empatico di ciò
che ci dice e ci mostra, il modo umile e semplice con cui a lui ci approcciamo
e tanto altro ancora.
Tanto
altro che, chi lo ha voluto, ha potuto ri – scoprire in questo nostro 33°
Kangeiko, lo stage invernale. Ri – scoprire di sé e del proprio stare al mondo.
Altrimenti, per quanto mi è dato comprendere, sarebbe stato più semplice e
godereccio restare a casa, nel proprio tranquillo tran tran domestico. Senza
farsi del male, col freddo e con il buio, con i pugni e le bastonate;
soprattutto, senza farsi del male guardandosi dentro.
(Lucio A. Seneca)
i cuori intrepidi nella Terra infausta
RispondiEliminaall'arrembaggio di noi stessi,
selvatici indomiti ai colpi di frusta
tra un pugno e una lama, sorrisi sì espressi
e dall'interno di un mostro di fango
due cuccioli con artigli da leone
ne escon saliti di rango
e tra le mani la cinta marrone