Esotismo,
dal greco exo (fuori): quel gusto,
quella passione che spinge verso culture, abitudini, costumi, “estranei” al
nostro quotidiano.(1)
Un gusto, una passione che, con un pensare razionale,
trova la sua giustificazione nell’essersi mantenuta ben più a lungo che da noi
in quei paesi, in quel mondo, la Tradizione, la pratica, del combattere a mani
nude, del combattere con armi bianche e simili. (2)
Un combattere “occhi negli occhi” che da noi, complice la
rapida evoluzione e diffusione delle armi da fuoco, ha avuto vita breve e poco si
è conservato nei secoli.
Ma, tuffo nel cuore, un gusto, una passione che si
innerva e cresce con la capacità tutta orientale di immaginare oltre la realtà,
di fantasticare su di essa, dando nomi improbabili, persino impossibili, a giochi
ed esercizi e tattiche e strategie: “camicia”
di ferro”, “spire del cobra”, “bufalo d’acqua”, “coda del dragone bianco”
“solcare il mare senza che il cielo se ne accorga”, ecc. (3)
Lo scriveva già il grande Italo Calvino: “Nella forma che il caso e il vento danno
alle nuvole, l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano,
un elefante”.
Un uomo antico, intriso di Tradizioni mai del tutto
sopite, che si affaccia, curioso sempre, sulla Natura e le sue manifestazioni.
Un uomo che sa restare bambino, naso all’insù, a leggere
di mostri e volti e avventure disegnate nel cielo da nuvole bizzarre o in acqua
da correnti improvvise.
Come mi piace praticare queste antiche Arti che il
continente asiatico copiosamente ci dona!!
“Benedetto il Signore, mia
roccia, che addestra le mie mani alla
guerra e
prepara le mie dita alla
battaglia”
(Salmo
143)
1. Resta inteso, come più volte scrissi, che nessun modello ha valore descrittivo
generale e metacontestuale. Ogni modello, perciò, è culturalmente determinato: ha senso solo all’interno delle
condizioni (antropologiche, culturali, sociologiche, ecc.) in cui è nato, in
riferimento ai bisogni ed alle aspettative della comunità che gli ha dato forma
e vita.
Infatti, nella pratica di queste Arti d’Oriente, come io
le propongo, non si scimmiotta alcun modello teorico né tecnico; non ci si
illude di essere samurai o monaci Shaolin!!
Piuttosto, si gioca a incarnare ogni sorta di immagine archetipica, universale, potentemente
evocatrice di qualcosa per il combattente, il predatore; a compiere attività antiche
con profonda valenza simbolica (raccogliere, seminare, tagliare, forgiare, accendere
un fuoco, ecc) o gesti fondamentali (offrire, accettare, aprire, chiudere, ecc).
I
simboli religiosi dello sciamanismo, qui sono sostituiti da simboli artistici.
2. L’introduzione delle armi da fuoco, in Giappone, avvenne
tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo.
Il primo contatto dei Giapponesi con le armi da fuoco
ebbe luogo nel 1543, quando tre avventurieri portoghesi giunsero sull’isola di
Tanegashima ed impressionarono il signore del luogo abbattendo delle anatre coi
loro moschetti.
Qui basti sapere che le prime cronache a riportare di
armi da fuoco in Italia, più precisamente a Perugia citando lo schioppo, risalgono al 1364, praticamente due
secoli prima!!.
Entro un anno, gli armaioli di Tanegashima furono in
grado di riprodurre alla perfezione i moschetti portoghesi, mentre altri
studiosi sostengono che gli armaioli di Tanegashima non riuscirono a replicare
lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto
con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori
dalla canna dell’arma e dovettero attendere l’anno successivo, quando i
portoghesi tornarono sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del
feudatario.
Questa novità ebbe una entusiastica diffusione e, secondo
alcuni, un’evoluzione tecnica addirittura superiore ai corrispettivi europei, salvo venire poi
pressoché abbandonata per oltre due secoli in favore del ritorno all’arte di
combattimento tradizionale. Il Giappone
tornerà alla polvere da sparo, e su larga scala, solo dopo l’arrivo della
flotta statunitense dell’ammiraglio Perry nella baia di Tokyo (1853).
3. La Psicoterapia Breve Strategia (G. Nardone) utilizza, a
scopo terapeutico, tutta una serie di stratagemmi che si rifanno all’arte della
guerra dell’antica Cina conservandone i nomi, anche fantasiosi, proprio per le
loro capacità evocative.
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