«Sorry we missed you» è quanto sta scritto sull'avviso
che i corrieri che consegnano le merci a domicilio lasciano quando non trovano
i clienti. Ma, in un’altra lettura, potrebbe essere anche il leitmotiv (“ci sei mancato”) che campeggia nella
crisi familiare del protagonista di questa dura e spietata pellicola di Ken
Loach.
Anni addietro, su questo blog, recensii un altro intenso
film di Loach: “Dalla parte degli angeli”.
Ora tocca a
Sorry
we missed you
Pellicola dedicata al nuovo sfruttamento, alle nuove
disumane condizioni di lavoro, al mito di riuscire a farcela da soli, allo sfaldamento della
famiglia di fronte alle necessità economiche.
Questo è un film crudo, un autentico pugno nello stomaco
davanti alla disperazione ed alla perdita di sé di “personaggi” che sono gli
stessi che incontriamo tutti i giorni della
nostra vita. E che, poco o tanto, potrebbero essere noi.
Con un passato sessantottino, di impegno politico che
poi, per altri anni, si fece sindacale; con un impegno, durato trenta anni, a
costruire una “Scuola”, un collettivo in cui condividere crescita personale e
progetti, vedere questo film è stato difficile. E’ stato riesumare molteplici
fallimenti, di contro a qualche incerto successo; è stato ammettere che le cose
attorno a me, nella società, hanno preso una direzione di prevaricazione e
menefreghismo, di egoismo e malaffare diffuso.
Davvero oggi lo sforzo principale, anche in una società che
si definisce opulenta come quella occidentale, è quello di sopravvivere
economicamente per non finire ai margini, o peggio in mezzo ad una strada?
Davvero non esiste più alcun afflato, alcun momento di
confronto e impegno collettivo per cambiare le storture di questo vivere
capitalistico e consumistico?
Pare proprio di sì, se il padre di famiglia sceglie lo
scontro con i figli, sceglie di mettere a serio repentaglio la propria salute,
pur di lavorare e lavorare e lavorare.
Pare proprio di sì se mai, anche di sfuggita, anche solo
sullo sfondo, compaiono, che so, un corteo sindacale, una manifestazione di
piazza; se mai, in tutto lo snodarsi della trama, qualcuno si schiera a difesa
di qualcun altro.
E queste tensioni Loach bene le mostra, aiutato dal modo
tipicamente britannico di relegare in un angolo la musica: è solo la qualità,
l’intensità delle immagini e dei dialoghi, a risaltare, a tenere lo spettatore
incollato allo schermo.
A Loach non interessa né spiegare come funziona questo brutale
sistema di sfruttamento: bastano poche frasi del “capo” del protagonista a
spiegarcelo, né indicare una via d’uscita: quale, se si resta nell’alveo del
capitalismo?
A Loach, in linea con i mutamenti sociali, non interessa
parlare di classe operaia: e dove sta più?
Piuttosto ci mostra quel nuovo
proletariato e sotto-proletariato (1)
fatto di precari che non hanno (e come potrebbero?) nemmeno “la coscienza di
classe” perché non appartengono a nessuna categoria predefinita, che lottano
gli uni contro gli altri in una gara per non affogare prima ancora che per
emergere.
Loach è un vero “duro”, un regista che mostra e ci mette
tutti davanti ad una realtà brutale a cui nessuno sfugge.
Nemmeno io che acquisto su Amazon, perché, come ci
ricorda ancora una volta il “capo” del protagonista, al cliente interessa solo
il prodotto, il costo e la consegna tempestiva.
Nemmeno io che faccio a volte la spesa di Domenica,
sfruttando il “sempre aperto” dei supermercati.
A me resta il doloroso pensiero che solo cambiando gli
uomini, il loro pensare ed agire, questa società potrà uscire dal mefitico
pozzo in cui è precipitata.
Ma sarà mai possibile presi come siamo da un vortice di
“consumo senza uso”, di prevaricazioni di ogni tipo che toccano i potenti come
gli sconosciuti, di smania di apparire?
Film duro, schietto, assolutamente da vedere.
E chi, rimproverando a Laoch le sue simpatie per il leader
politico antisemita Corbyn, sminuisce la qualità di questa sua ultima opera,
non fa altro che confondere l’opera col suo autore e, forse, si dimostra tanto
superficiale da vedere di Corbyn solo l’aspetto più eclatante e non il
messaggio sociale che lo animava e che è stato sconfitto. Appunto.
1. Già Anton Pannekoek
(1873 – 1960) scriveva: “”Questi sfruttati sono convinti di lavorare per se stessi;
per questo si spremono fino allo stremo delle forze e si accontentano del modo
di vita più miserabile. Vivono molto peggio degli operai dell’industria e la
loro giornata lavorativa è molto più lunga” Un secolo dopo, non sono più
piccoli borghesi in caduta libera o contadini, ma i nuovi schiavi delle
consegne, dei contratti precari.
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