Diciamo subito che, in realtà, il presunto primo
ventennio del ‘900 è attraversato da incursioni
che lo stravolgono, laddove la famiglia Orsini sembra vivere
nell’Ottocento più edulcorato, mentre la famiglia di Eden pare schiacciata in un
dopoguerra da anni quaranta.
La trasposizione vede Martin Eden, ingenuo e spavaldo
insieme, affogare lentamente e dolorosamente nella acre contraddizione dei
tempi nostri tra un anelito alla scalata sociale e il distacco, che è perdita
dolorosa in odore di tradimento, dalla classe di appartenenza.
Conquistati cultura e successo, denaro e popolarità,
Martin Eden si ritrova privo di una identità consapevole, abbandonandosi a
gesti autodistruttivi, ad una indifferenza tormentata in cui il passato non gli
appartiene più ma nemmeno sa riconoscersi nel presente.
Sprezzante e violento, i suoi tratti anarchici ed
individualisti, che si mostrano in tutto lo scorrere del film in opposizione
alle teorie socialiste come in opposizione ad un presunto liberalismo che
anticipa le distorsioni e le ingiustizie di un capitalismo monopolistico
marcescente, si rifanno, anche in modo disordinato, alle teorie di Herbert Spencer.
Questi, un intellettuale inglese dei primi dell’800 a sua volta influenzato
dalle teorie di Malthus, nonché strenuo difensore del liberalismo totale, arriva a ipotizzare che lo Stato non deve
assolutamente intervenire con criteri di solidarietà o di agevolazioni, perché altrimenti impedisce che maturino le forme di selezione
naturale necessarie alla sopravvivenza della società stessa.
Eden fa proprie, a suo modo, queste teorie investendole
in un anarchismo individualista sfrenato, avverso al sapere accademico e al
nuovo che lo circonda, quanto del tutto incapace di trovare, nella vita privata
come in quella pubblica, un percorso di autentica individuazione antagonista o
alternativa da offrire a se stesso come alla collettività.
Un intellettuale per niente organico; un “maledetto”
autolesionista come altri scrittori e poeti; ma anche, riflettendo ai giorni
nostri ed allo sfrenato bisogno di successo, un uomo che si è sacrificato
sull’altare dell’industria culturale fino a perdere il senso di sé; e pure un
monito verso quanti, famosi o non famosi, una volta raggiunto il successo,
grande o piccolo che sia, non riuscendo a reggerne il peso psicologico, si sono
alienati, persino suicidati, materialmente o meno: quel subdolo mal di vivere
che non risparmia nessuno, nemmeno chi sembra ne sia protetto da una condizione
sociale di superiorità e riconoscimento collettivo.
La pellicola, tra le tante chiavi di lettura possibili,
ci narra di un uomo che crede solo nel proprio essere individuo perennemente contro una società ingiusta; che crede di
trovare una strada salvifica nell’amore (verso una giovinetta della società
alta) e nella cultura (alta); che finisce per affondare malamente scoprendo la
falsità delle sue illusioni e delle sue idealizzazioni, l’impossibilità a
tornare alle sue radici, fino a darsi la morte.
Suona davvero interessante e attuale, cercherò di recuperarlo quanto prima.
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