Le Arti Marziali sono una
pratica fortemente coinvolta nell’immaginare.
I testi classici ridondano di immagini atte a spiegare i
principi del fare, atte ad accompagnare il praticante nel suo percorso
marziale.
Nel terzo millennio, in una società che non ha più nulla
del terreno sociale e culturale in cui le Arti Marziali nacquero, chi intende offrire
una didattica fondata sulle immagini, chi intende usare l’immaginare come
metodo di progressione e conoscenza, deve sapere cosa sia immaginare e come
immaginare.
Il primo elemento da chiarire è
che
immaginare non è pensare.
Lo spiegava bene Gaston Bachelard (1) quando
ricordava che, immaginando un ramo, ciò che rende peculiare e potente
l’immagine non è forma o colore dello stesso, ma la forza vigorosa di torsione
del ramo, il suo procedere nello spazio conquistando, centimetro dopo
centimetro, terreno essenziale alla sua stessa sopravvivenza.
Se il
ramo tu lo pensassi non saresti in grado di viverlo nella sua essenza, nella sua
vitalità.
E qui interviene il docente, il Sensei, che sa (se
lo sa!!) come aiutare l’allievo perché tale stato fantasticante e
originariamente percettivo affondi nell’inconscio (Bachelard scriveva di “reverie”)
e da lì si espanda per tutto l’essere vivente e il suo agire nello spazio.
Il secondo elemento,
trattandosi di pratiche corporee, somatiche, è spogliare l’immaginazione del
suo percorso dal soggetto ad un oggetto esterno (io e il ramo) costruendo
invece un percorso immaginale dentro il corpo (io e il mio respirare, io e il
mio braccio teso a colpire, ecc.)
Una volta capaci (ne siamo capaci?) di entrare in sintonia
con i nostri gesti, di riconoscerli, siamo in grado di ascoltare le sensazioni
che ne sorgono, però….
La questione che però si pone è se siamo noi ad
ascoltarle, col dubbio di una… “sega mentale” (2), di una
nostra costruzione illusoria, o sono loro, le sensazioni, che sono
autentiche e si fanno sentire in quanto noi, finalmente, siamo liberi e
capaci di ascoltarle.
Il primo caso suesposto è quando si propone un’immagine con
l’intento di contattare la nostra parte corpo, materiale. Il secondo è quando ciò che si si sente, si
percepisce di e nel corpo a suscitare un’immagine. Il primo va dalla mente al
corpo, il secondo, invece, dal corpo alla mente. (
3)
Nel primo percorso,
inevitabilmente, il te corpo ti dirà ciò che è più vicino alle tue aspirazioni,
alle tue aspettative; Nel secondo percorso, sarà ciò che percepisci, ancorché
confusamente, approssimativamente, a regalarti un’immagine di quel te corpo in
quel momento.
Per praticare questo secondo percorso, occorre
- - avere
una facilità nell’immaginare scartando la prigione limitante del pensare
- - assumersi
la responsabilità di sé corpo: Non “Ho le spalle contratte”, ma “Io sono spalle
contratte”
- - accettare
che il docente, il Sensei, mentre per esempio stai scaricando una mole
di diretti al sacco, ti chieda “Quale parte di te corpo inizia il movimento?”,
“Come senti diffondersi di e nel corpo questo primo movimento?”, “Cosa provi
mentre stai colpendo il sacco?”.
Accettare questa didattica, riecheggiare
i testi classici rivisitati in chiave moderna perché siamo italiani del terzo
millennio, dà risultati eccellenti.
Sta a te scegliere, cominciando
dal cercare il docente, il Sensei, in grado, per esperienza pratica e
formazione anche teorica, di introdurti a questo emozionante viaggio aperto
alla ricezione di tutto ciò che sei di corpo, di essere fisicoemotivo. Per
crescere guerriero nelle Arti Marziali.
1. Filosofo della scienza.
2. Espressione usata in psicoterapia (la incontrai la prima
volta negli scritti di Giulio Cesare Giacobbe, psicologo e psicoterapeuta) per
connotare una eccessiva preoccupazione o complesso di pensieri che comporta
ansia o paura, per estensione indica tutti i pensieri fasulli, disturbati e
disturbanti, ridondanti, falsi, che l’individuo suscita e coltiva in sé anche
senza averne reale motivo.
3. “Da un lato, le visualizzazioni, in cui la persona che
facilita la sessione ti chiede di proiettare una serie di immagini sul tuo corpo
o sul tuo contesto: ‘Visualizza una luce bianca che riempie il tuo utero’, per
esempio. E dall’altro le tecniche percettive, in cui il facilitatore invita
all’osservazione concreta di qualcosa che sta accadendo in quei momenti. Ad
esempio: ‘Osserva il tuo respiro’”” (Tere Puig, laurea
in Ingegneria, è scrittrice e insegnante di yoga). Andiamo alla posizione chuan
chuang / ritsu zen: “Immagina che i gomiti siano appoggiati su delle nuvole” o
invece “Senti qualcosa di pesante in te gomiti o spalle?” “Come puoi rendere
leggero e piacevole lo stare di te gomiti?” “Dove trovi, in te corpo, l’appoggio
più semplice perché i gomiti stiano leggeri e senza sforzo nello spazio?” ecc.