In un precedente post (Il corpo che parla), ponevo la domanda su che senso avesse praticare Arti Marziali oggi, nel terzo millennio, in un contesto sociale e culturale del tutto diverso da quello in cui ebbero origine; mi spingevo, con le differenze già sotto gli occhi di tutti, a sottolineare che la concezione consumista, edonista e narcisista diffusa ovunque influenza e forma ogni tipo di pratica motoria:
Anche
la pratica delle Arti Marziali?
Nessuna risposta, davvero. Né offrendo a spiegazione una
qualche citazione generica, né tantomeno e ben più importante, portando una
propria esperienza di pratica, carnale: io faccio Arti Marziali
rapportandomi in questo tal modo con un contesto che nulla conserva delle
origini e dei valori delle stesse.
Per restare in superficie, mi ricordo di quel che mi disse
alcuni decenni addietro un esperto di Arti Marziali, non ricordo se fosse il
compianto Maestro Cesare Barioli o il Maestro Claudio Regoli: “Noi siamo
abituati, non ci facciamo più caso, quando ci imbattiamo in gruppi di italiani
col vestitino da Karate o da Kung Fu; credi che resteremmo altrettanto
indifferenti se incontrassimo venti asiatici vestiti con gli abiti tradizionali
del sud Tirolo?”
Nella mia poca dimestichezza
con i social, confido di non sbagliarmi se mi aspetto che, tra i post e video
di chi mostra la sua bravura in una “forma” o in una difesa da aggressore, chi
pubblica una importante frase tratta dai testi classici, ci sia anche chi
scrive ed espone di sé e del suo senso nel dedicare tempo, energie e soldi a
praticare delle Arti avulse da dove e come siamo noi ora. Uno scambio tra
praticanti.
Ecco,
allora scrivo di me, di come io intendo la pratica ora,
e
magari qualcuno espone la sua di esperienza
Personalmente pratico Arti Marziali
recuperandone ed attualizzandone (appunto, siamo in Italia nel terzo
millennio!!) l’aspetto di centralità del corpo: un corpo abitato, vissuto
e non corpo oggetto, consumato, e di corpo inserito in relazioni di gruppo,
di collettività.
Noi entriamo in contatto col mondo, con l’ambiente,
attraverso il corpo: chi ora mi sta leggendo lo fa con gli occhi e dagli occhi
trasmettendo impulsi al cervello; mentre mi legge, le sensazioni che prova, gli
modificano il ritmo del respiro; mentre mi legge, ha una postura che cambia e
agisce dei micromovimenti in tutto il corpo.
La nostra stessa mente è profondamente incarnata, come
scrivevano già i taoisti e da alcuni anni ha scoperto il mondo delle
neuroscienze.
Propongo
un praticare di corpo che induca alla consapevolezza di come siamo ed abitiamo
corpo e di come, attraverso il corpo, conoscere di noi stessi e di come ci
relazioniamo con gli altri.
A fronte di una comunicazione sovente disincarnata, non solo per le restrizioni dettate dalla pandemia ma soprattutto, per l’imperare di una vita sempre più virtualizzata e tinta di consumo senza uso, sostenuta da valori egoriferiti e narcisisti, uso le Arti Marziali per ri – scoprire il sapere del corpo ed i giochi dei corpi; questo in un contesto di scontro, di lotta che, per metafora, forma a ben stare nei quotidiani “scontri” in famiglia, nel lavoro, negli affetti, ecc.
Così cerco di recuperare il cuore delle Arti Marziali per
farne un percorso attuale e di senso compiuto anche oggi, in Italia, nel terzo
millennio. Per realizzarlo, ogni esercizio, ogni gioco proprio delle Arti
Marziali lo propongo ri -modellato e inserito in una didattica ed in una
andragogia antagonista, anche alternativa, a quelle dominanti, ovvero maieutica
e libertaria di contro a quella che chiede di imitare modelli dati, che
ritiene l’allievo un asettico e passivo contenitore da riempire con un sapere
dato, in cui il docente ordina e l’allievo obbedisce e imita.
Questo è il senso che io do al praticare arti di
combattimento nate e cresciute secoli or sono, in società e culture ormai
scomparse, praticate da uomini che conducevano vite del tutto diverse dalle
nostre.
C’è qualcuno che si è posto il mio stesso interrogativo? Se
sì, come lo ha affrontato?
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