Da decenni mi sono fatto l’idea che quando è la tecnica, la ricerca tecnica, a prevalere, lì si infiacchisce fino a svanire ogni manifestazione artistica, financo ogni artigianato del vivere.
Fondare la pratica sulla ricerca tecnica, sulla perfezione
tecnica, mi pare come scrivere parole sull’acqua.
Mi piace ricordare il motto di Herns Duplan: “Un minimo di struttura e molta sperimentazione”,
dove struttura non è solo l’espressione tecnica, ma struttura è il sé corpo
fisicoemotivo del praticante, non a caso Il minimo di struttura a cui Duplan si
riferisce attiene alle leggi e ai nuclei fondamentali dell’esistenza umana (1).
Il movimento che si affida alla tecnica propaga in modo manifesto
e sistematico una funzione di oggettivazione del corpo: Il corpo che si sforza
di imparare il gesto tecnico, si pone nella condizione di essere osservato, diretto, consapevolmente sorvegliato,
dall’Io, qui inteso come razionalità pensante e giudicante.
Personalmente, da alcuni
decenni, pratico e propongo allo Spirito Ribelle, un’attenzione
maggiore, prioritaria, all’espressione degli impulsi interiori che precedono i
movimenti del praticante, dando inizialmente un’attenzione relativa all’abilità
necessaria per la gestualità nello spazio (2).
Per condurre davvero proficuamente l’allievo, occorre una
didattica ed una pedagogia / andragogia apposita, adatta, fatta di domande che
lo aiutino a guardare dentro di sé unitamente al “come” si sta muovendo.
A volte utilizzo quelli che sono veri
e propri koan zen fisicoemotivi, altre a quelle che chiamo "informazione
d'anticipo": "Al prossimo mio attacco, ti chiederò quale parte del
movimento in cui intercetti e simultaneamente contrattacchi ti procura maggiore
disagio". In questo modo, sto collegando la sensazione di fluidità nel
movimento con l'efficienza biomeccanica, dal che consegue che qualsiasi inadeguatezza
biomeccanica verrà sperimentata come una sensazione di disagio localizzata nel
punto interessato dal movimento.
Altre volte ricorro alla saggezza
guerriera di antichi testi cinesi e giapponesi, come “I 36 stratagemmi.
L’arte cinese di vincere”, risalente all’epoca Ming (1368 – 1644) o “Il
libro dei cinque anelli” attribuito allo spadaccino Myamoto Mysashi (1584 –
1645)
Lo faccio piegando le indicazioni strategiche e tattiche
volte alla vittoria in uno scontro mortale per superare e vincere le eventuali
difficoltà di apprendimento motorio, gestuale.
Ti
pare impossibile?
- Eppure “Solcare il mare
all’insaputa del Cielo” si presta benissimo a deviare quella eccessiva
attenzione ad un gesto che ne può impedire l’apprendimento, smorzando l’ansia
di prestazione, quello sforzarsi di fare che, ma guarda un po', cozza proprio
con l’invito a Wu Wei, “non tirare troppo la corda”, “non
sforzarsi” che regge il pensiero taoista: Accompagno l’allievo a prestare la
massima attenzione ad aspetti secondari del movimento, fatti passare come
fondamentali, mentre lo porto a fare del suo meglio ciò che davvero è
fondamentale offrendolo come marginale.
- Eppure “Heiho no michi daiku ni
tatoetaru koto” ( Paragonando Heiho alla Via del carpentiere) è un costante
ammonimento perché io, in qualità di Sensei, offra ad ogni
allievo la possibilità di imparare e impratichirsi di ogni movimento tenendo
conto delle peculiarità motorie dell’allievo stesso: Le medesime catene
cinetiche che portano a Gyakuzuki – Ushirogeri (controdiretto di
braccia – calcio diretto all’indietro) e a Oshitaoshi (proiezione
al suolo spingendo) saranno più facilmente capite da uno sperimentandole con le
percussioni, da un altro con le proiezioni al suolo.
Ritengo
che il privilegiare l’acquisizione tecnica porta il praticante a ridurre le
variabili dei suoi movimenti, ad affidarsi a quelli che più si confanno alla
sua abilità.
Privilegiare, invece, l’intelligenza motoria, quel processo noto come embodiment, ovvero un percorso di sperimentazione ed apprendimento in cui “la consapevolezza si radica profondamente nel corpo, fino a un livello cellulare e permea ciascun aspetto dell’essere: fisico, emozionale, mentale e spirituale” (B. Bainbridge Cohen ‘Sensazione, Emozione, Azione) spinge il praticante a non privilegiare la selezione e a rifiutare l’uso di ogni singola forma di movimento che sia per lui pura acrobazia, puro virtuosismo o chiusura nell’asfittico recinto della propria comfort zone (3). Nel tentativo di far fluire liberamente i suoi movimenti spontaneamente, chi patica con “Un minimo di struttura e molta sperimentazione” sarà spesso più irregolare e impulsivo del praticante “tecnico”.
In sintonia con la visione di
diversi esperti del movimento che mi hanno preceduto in questa ricerca (4),
mi permetto di affermare che questi due diversi approcci finalizzano in due
modi diversi l’uso del movimento: Da un lato, alla rappresentazione dei tratti
più esteriori, più imitativi della gestualità e dunque della vita stessa,
dall’altro, al rispecchiamento dei processi nascosti nell’interiorità
dell’essere umano. E questo sì che è davvero Neijia Kung Fu,
lavoro interno. E questo sì che accompagna il praticante anche verso quelle
qualità umane di conoscenza di sé, equilibrio, vitalità ed erotismo altrimenti
inaccessibili.
1. Per saperne di più: E, Bellia ‘Danzare le origini’
2. Per saperne di più: R. Laban ‘L’arte del movimento’
3. La comfort zone è lo stato mentale della persona che opera
con un livello di prestazioni costante e senza affrontare rischi. Quando andiamo
oltre la zona di comfort, ci sentiamo vulnerabili e soggetti ad un alto grado
di rischio, perché nella comfort zone siamo a nostro agio, siamo sicuri di noi,
agiamo movimenti e gestualità a noi noti e dunque rassicuranti.
4. Come ripeto sovente, “Io sono un nano issatosi sulle spalle
di giganti”. Probabilmente il mio pregio è non smettere mai di cercare, di
sperimentare, accettando cadute ed avanzamenti, dedicando tanto alla pratica e
ben poco all’accaparrarmi posti di rilievo in organizzazioni o al marketing. Così
cresco, migliore ed offro questa mia crescita, queste mie scoperte ai
praticanti che mi accompagnano. Con il rispetto sempre dovuto a chiunque mi
abbia preceduto su questo cammino di ricerca e sperimentazione perché, ai suoi
tempi, è stato “avanguardia” e come tale merita rispetto ed ammirazione.