sabato 17 dicembre 2022

Arti Marziali come armi

Il solito “pistolotto” sulle Arti Marziali per sapersi difendere da un’aggressione?

Per imparare l’autodifesa?

NO!!

 In precedenti scritti ho già smontato questa “bufala”, questa illusione venduta a paciosi studenti e tranquilli impiegati di diventare dei letali combattenti. “Bufala” ed illusione costruita su esercizi e combattimenti sempre in coppia e con l’opponente sempre davanti a sé e precedentemente già identificato come tale; su grottesche difese da coltello rigorosamente di plastica e da pistola giocattolo; su esercizi ginnici e di potenziamento (magari pure errati e portatori, nel tempo, di dolori cronici) come “conditio sine qua non” per sapersi difendere, e la lista di aberrazioni, incongruenze e falsità potrebbe continuare.

Invece

Sì, le Arti Marziali come armi: potenti, distruttive, letali.

Sì, lo Spirito Ribelle inteso, come scriveva Ernst Junger, a mò di anarca, parola composta dal greco an 'senza' e -árchìs, da árchein, 'governare, comandare'. Ossia l’individuo che rifugge un ordine arrogante nel pretendere il controllo totale, e allora si sottrae scegliendo di ‘passare al bosco’, dissociandosi dai valori imposti dalla società.

Uno Spirito Ribelle che pratichi Arti Marziali, come io le intendo e le propongo, ecco quanto vado formando, di passo in passo, di aggiustamento ed approfondimento in aggiustamento e approfondimento, ormai da quasi mezzo secolo.

Uno Spirito Ribelle che pratichi Arti Marziali è un individuo autodeterminato, coraggioso,

vitale ed erotico: un guerriero contro.

Perché scrivo questo? E come si può arrivare ad un individuo siffatto?

Ogni individuo, sin dalla nascita, cresce e si forma nella relazione con gli altri e con l’ambiente in cui vive. Ma siamo in una società che annebbia il senso dell’altro, ci distanzia dall’altro, che, per rispolverare Karl Marx e il concetto di alienazione, riduce l’altro ad oggetto: reifica le relazioni, aliena il sé corpo, il sé fisicoemotivo.

L’altro è massa indistinta, è like sui social.

Prendiamo il contatto più spontaneo ed intimo: l'attività sessuale, ebbene è in diminuzione, come ci dicono i diversi rapporti in merito: “Periodi di astinenza negli ultimi tre anni hanno riguardato il 92,6% delle persone, quote uguali tra maschi e femmine: la durata media è stata di 6 mesi, ed è il 26,2% ad avere avuto un’astinenza sessuale superiore ai 6 mesi” (fonte Censis) e come rileva Luigi Zoja, psicoanalista e sociologo nel suo ultimo libro: “Il declino del desiderio”. Cresce, invece, il sesso on line, quello finto, quello immaginato, quello dove si inventano storie e giochi erotici tutti “vissuti” di mente.

Una fuga dall’intimità dei corpi, dal contatto dei corpi; i corpi sono invece vetrinizzati, sono merce modificata ed abbellita in pratiche di palestra ed esposta al pubblico come oggetto di consumo o in veste puramente decorativa. Sono Körper, corpo-oggetto, quel che uno ha, che occupa uno spazio, che misura di certe grandezze come il peso e l’altezza, e non Leib, che conosce attraverso l’esperienza ed è corpo vissuto.

Il corpo non è più fisicoemotivo, non è più il flusso tra il sé e il resto del mondo, è divenuto carne morta, corpo sterile. il corpo non è più teatro delle passioni, come cantava Omero nel IX secolo a.c., né “cognizione incarnata” come scrivono George Lakoff e Mark Johnson, filosofi e linguisti; il corpo, oggi, è “il più bell’oggetto del consumo” (Jean Baudrillard, sociologo), è “oggetto posseduto da personalizzare con gadget, app, chip subcutanei, innesti e perfino software da scaricare direttamente nel cervello” (G. Mininni, filosofo).

E’ l’alterità che consente lo sviluppo dell’identità individuale e pure collettiva. Gli individui, invece, nel contatto di corpo che è quotidiano, persino obbligato nel vivere sociale, praticano contatti dominati dal consumismo e dal narcisismo, contatti asfittici, contatti pervasi da insincerità, contatti di corpi estranei a se stessi prima ancora che agli altri.

Ecco, allora, la pratica delle Arti Marziali come arma

che smonta e distrugge reificazione ed alienazione.

Lo fa perché propone giochi e dialoghi di corpo a corpo, anche conflittuali; giochi il cui “cuore” della pratica è conoscere e misurare la propria identità personale confrontandola con quella dell’altro e integrandola nel gruppo. Grande esempio di formazione all’adultità!!

Lo fa costruendo momenti empatici, di risonanza emotiva, e momenti esplorativi intesi come nuovi modi di esprimersi gestualmente quanto nuovi modi di contatto con l’altro. Grande esempio di integrazione tra ciò che si è e come lo si esprime con ciò che di sé e dell’altro si scopre, inducendo inconsueti tracciati creativi!!

Lo fa giostrando abilmente tra giochi e momenti di libertà espressiva e giochi vincolati. Importanti questi ultimi perché il vincolo ad una gestualità totalmente libera riconduce il praticante alla condizione esistenziale quotidiana, quella dove non gli è concesso di tutto, non gli è concesso di fare quel che gli pare. Tanto impara il concetto di contenimento, di cooperazione, quanto sperimenta quella creatività che è unica fonte di una concreta libertà d’azione.

Perché sia così, certamente, occorre un luogo, un ambiente di pratica, che su questo sia fondato e non su codifiche di stili e memorizzazioni di tecniche; del tutto lontano da dettami dirigisti e didattiche impositive; che rifiuti tanto le mere e morte sequenze gestuali prive del corpo come “luogo di esistenza (JL. Nancy, filosofo),  quanto lo scazzottarsi come fulcro, come parte preponderante della pratica invece che come verifica di quanto studiato e dei progressi fatti; dove non regni il Sifu, il Maestro, l’allenatore, ma un facilitatore, quello che io chiamo il Sensei, “colui che è nato prima il cui compito non è l’indottrinamento dell’allievo, sorta di “carta bianca” su cui scrivere il sapere di questa o quell’Arte, su cui sfogare il proprio delirio di onnipotenza, quanto l’accompagnarlo dentro il suo mondo interiore e le potenzialità ancora inespresse.

E, sinceramente, una pratica, un luogo e un Sensei così, a parte me e il nostro gruppo, nel mondo delle Arti Marziali, io ancora non l’ho incontrato!!

Scelta legittima, certo, quella di praticare e proporre le Arti Marziali in altro modo e con altri scopi, purché non si inganni il “cliente” illudendolo che incontrerà equilibrio e consapevolezza, salute psicofisica, autorevolezza decisionale, ed altre caratteristiche che, invero, nessuno potrà mai trovare se non pratica di corpo in quanto esperienza del corpo stesso e attraverso una didattica maieutica (1). Perché, Maestri e Sifu, in tutta onestà, non propongono le Arti Marziali come attività ginnica, come avvincente sport, come occasione per fare nuove conoscenze, per stare insieme in compagnia, per divertirsi? Tutte caratteristiche legittime, persino attraenti.

Questo modo che io vado proponendo riprende ed attualizza il Tradizionale passaggio dal Bujiutsu ( combatto per salvare la pelle a scapito di quella dell’avversario)  al Budo (modo, Via, di crescita ed educazione): “Scopo della pratica del Budo è di ‘denudare se stessi, di affrontare se stessi’ tramite le modalità di origine marziale” (Murata Takuya, Maestro di Kendo e Iaido). Passaggio che, approssimativamente, avvenne alla fine del periodo Meji, nella prima metà del XX secolo. (2)

Questo modo è l’arma potente, distruttiva, letale, in mano al “ribelle”. Un’arma con cui il ribelle non potrà certo cambiare il mondo, fermare la deriva capitalista, ma, almeno, potrà cambiare, o provare a cambiare, di sé e di chi gli sta intorno: poca cosa, ma… ogni grande viaggio inizia da un primo passo

 

1. “il risultato è una crescita personale”; “favorisce l’autonomia, la padronanza di sé, il rispetto degli altri, e una migliore qualità di vita”; “permette di allontanare gli atteggiamenti impulsivi di rabbia e agitazione, facendo spazio alla calma, al rilassamento emotivo e all’autocontrollo”. Sono tre promesse pubblicitarie di tre distinte Arti Marziali (non importa quali), di cui, con parole magari diverse, è pieno l’ambiente marziale. Promesse che nessun volantino, nessun articolo, nessuna riflessione spiega come attuare, se non ripetendo tecniche, forme, combattimenti, se non puntando alla migliore imitazione del modello dato. Pubblicità ingannevole?

 

2. Questa transizione fu spiegata nei libri di Donn F. Draeger, insegnante e praticante di arti marziali giapponesi, autore di alcuni dei più autorevoli libri sull’argomento. Fu esplorata ed interpretata dal Maestro di Judo Cesare Barioli nei “Quaderni del Bu Sen”. Quest’ultimo fu il primo a proporre, in Italia e in sintonia con gli insegnamenti del Maestro Kano Jigoro fondatore del Judo, la pratica judoistica come forma di educazione tentando anche di introdurla in veste ufficiale, ossia come materia di studio, nelle scuole pubbliche. Un approccio diverso dal mio, che tratta di “formazione” e non di “educazione”, e che il Maestro proponeva con una didattica in rigida sintonia con gli insegnamenti dirigisti del Judo stesso, quelli propri anche della scuola pubblica italiana, dunque ben lontani da quella didattica maieutica che io sostengo. Il tentativo non andò a buon fine, ma il Maestro Barioli resta un grande esempio di come le Arti Marziali possano essere davvero una “Via”, un percorso di conoscenza interiore e di crescita personale. In questa direzione di “crescita” si mossero, negli anni ’80 – ’90, anche alcuni gruppi di aikidoka ed un gruppo ligure di Chi Kung dei quali, però, persi presto le tracce.

 

  

Post illustrato da briciole di momenti e volti di un percorso

ZNKR, poi Spirito Ribelle,

che dal 1980 continua ancora oggi

 

 

 


















 

 

 

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