domenica 21 gennaio 2024

Il fascino assassino del Katana

Chi mi legge sa che da decenni, prima ZNKR ora Spirito Ribelle, coltivo una concezione incarnata, fisicoemotiva, dell’essere umano. Di conseguenza, propongo una pratica del corpo tesa allo sviluppo dell’embodiment, dell’intelligenza incarnata all’interno di una situazione di confronto e scontro.

Purtroppo viviamo in una società vieppiù disincarnata, in cui le esperienze e le relazioni sono generalmente vissute attraverso lo schermo di uno smartphone da quello che il filosofo Byung Chul Han chiama “phono sapiens”, (in “Come abbiamo smesso di vivere le cose”), in cui “le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non – cose. La conseguenza di ciò si chiama infomania” (ibid). Ormai, gran parte di ciò che prima era corporeo, è virtuale. Quel che di corporeo rimane è vetrinizzazione, è consumo di corpo oggetto (Korper), prigione a cui non sfugge nemmeno la pratica fitness o quella sportiva.

Come coniughiamo questo nostro, di Spirito Ribelle, fondarsi invece sul

corpo Leib, corpo esperito, corpo abitato,

con la pratica di un oggetto, di un’arma bianca, arma pure del tutto inattuale nel terzo millennio?


Ne scrissi già in precedenti post. Qui mi preme, in sintonia con le righe sopra, a fronte dello strapotere del virtuale: degli e – book sui libri, delle “amicizie” in rete su quelle fisiche, della “realtà aumentata” su quella reale, del sesso attraverso uno schermo su quello carnale, rilevare che siamo divenuti insensibili al fascino ed alla magia degli oggetti. Oggi sono solo cose prive di dialogo con l’umano.

Invece, il lungo e faticoso processo metallurgico, in particolare nei Katana tradizionali, richiama il mistero dei processi alchemici, possiede una materialità intrigante. L’amalgamarsi contraddittorio di acciaio duro e acciaio morbido, l’importante presenza di materia impura per rendere l’arma affidabile, la pesante fatica manuale per forgiare e quella precisa e ripetitiva per affilare, i riti che circondano la creazione di ogni lama, non possono non risvegliare miti e archetipi che sono linfa del vivere consapevole.

Ecco, il Katana, oggi, nel terzo millennio, non “serve”, non è soggetto ad alcun uso, dunque non può essere consumato: Bestemmia grave di questi tempi!! Però, nelle nostre mani spadaccine, il Katana è momento di relazione con le nostre pulsioni, è persino creatore di mondi.

- Quanti allievi il Katana l’hanno impugnato frettolosamente e subito lasciato, incapaci di stabilire un rapporto con l’arma che trancia di netto, che uccide; costoro ormai abituati, servi, di cose, strumenti, immediatamente a disposizione, di pronto uso, e come tali strumenti impossibilitati a suscitare quell’ascolto profondo e profonda attenzione che richiede, impone, il Katana.

- Quanti allievi, impugnando il Katana, una volta entrati in contatto con le forze terrificanti che sprigiona, con il disvelamento dell’Ombra che macera e turba, che gorgoglia e rantola dentro ogni spadaccino, sono fuggiti senza parole o adducendo parole di menzogna. Onore, invece, a chi, spaventato dai demoni intravisti, ha sì abbandonato l’arma ma ammettendo di non essere pronto, di essere sopraffatto dal timore: Anche nella fuga c’è onore e coraggio quando ce se ne assume la responsabilità, quando si ammette la propria incapacità a stare nel conflitto.

- Qualcuno, invece, è rimasto. Ha impugnato la tsuka, l’impugnatura della lama, finemente intessuta di seta o cotone o intrecciata di cuoio, e ne ha fatto esperienza. Esperienza di tagli e falciate, a vuoto o su un bersaglio di stuoie o di bambù, o di lanci rapidi violentemente fermati a pochi centimetri dal corpo dell’avversario. Così disvelandone il mezzo, antiquato, sorpassato, inevitabilmente desueto, nella sua sorprendente e perturbante utilizzabilità. Solo così addirittura portando alla luce un aspetto esperienziale che precede l’utilizzabilità; che scoperchia un mondo, il mondo, dell’umano più antico e del suo rapporto con la morte.


Da diversi anni, colto in un momento di intensa tristezza eppure affacciato al mondo, ho con me un Katana tradizionale: uno Shinto, dei primi del 1600.

Come già scrissi, non ne sono proprietario, ma solo il temporaneo custode. Quest’arma antica, benché da me acquistata, non la ritengo una mia proprietà, piuttosto la sua presenza in bella mostra sul katana kake testimonia l’approvazione del suo esserci.

Solo così mi ritengo degno di accettare, col mio acquisto, di averla salvata da una definitiva scomparsa o dal divenire serva di qualche sciocco uso sportivo, gara a chi lo taglia più grosso, o vacua mostra per occhi vanitosi. Non cosa d’uso, non merce, ma esperienza di cuore.

Esperienza che è modalità critica necessaria per un'assimilazione personalizzata di ogni nostra pulsione e capacità di disporla al servizio di una personale presenza autodeterminata e coraggiosa nel nostro vivere, nelle nostre relazioni di ogni giorno.

Questo è essere praticanti Kenshindo, la “Via dello spirito della spada”, oggi, nel terzo millennio. Roba per donne e uomini coraggiosi.






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