Mercoledì 15 di un Ottobre caldo e fiacco, scendo le scale che portano al Dojo del Maestro Giuseppe.
Nel Dojo vuoto, il silenzio è più denso dell’aria. Non c’è più il cerchio degli allievi, nessuna eco di saluti, nessun scalpiccio di piedi sul tatami. Solo il respiro, il mio.
Il katana impugnato tra le mani come un animale primitivo, non chiede nulla, ma tutto ascolta. È lama e specchio, è compagno e giudice. Nel suo filo esangue si riflettono le ore passate insieme, le voci che ora mancano, i sorrisi che il tempo ha disperso come foglie nel vento.
Pratico da solo. Ma non sono solo. Ogni gesto è una memoria incarnata, ogni kamae un richiamo al passato recente, ogni taglio un legame tra ciò che è stato e ciò che ancora pulsa.
Davanti a me, i bersagli soffici: Materia che non oppone resistenza, ma comunque chiede precisione. Verrà, confido, di nuovo il tempo del Tameshigiri su stuoie e bambù, ma ora, chiuso da anni il locale che fu ZNKR e non più rinnovati seminari e stage all’aperto, tocca adattarmi, ripiegare su materiale improvvisato pur di non perdere l’attitudine al taglio.
Il Tameshigiri, come lo intendo io nel rispetto della Tradizione, non è sfoggio di abilità tecnica né tantomeno sport a “chi lo taglia più grosso”, è invece cruda confessione. È il momento in cui la lama dice la verità che il corpo fatica a pronunciare.
Taglio. Ci vogliono almeno sei sette sequenze di tagli che sono invero strappi, goffe ed imprecise lacerazioni, prima che il taglio sia davvero un sottile filo a dividere, a tranciare di netto. O, almeno, i bordi inerti dei bersagli non offrono più rilievi ed ostruzioni poi così evidenti.
Nel taglio, il tempo si ferma. Non c’è rabbia, non c’è ostentazione né trionfo. Solo il gesto puro, la linea netta che separa l’inutile dall’essenziale. Il bersaglio si apre come un fiore d’acqua, e io, per un istante, mi sento intero.
Il gruppo si è dissolto, ma la Via non si spezza. Cammino su un sentiero che ora è più stretto, ma più profondo. Ogni pratica è un’offerta, ogni taglio un haiku inciso nell’aria.
E quando il sole del mezzogiorno che bussa alla porta filtra tra le finestre del Dojo, illuminando l'oscillare disordinato della polvere, so che non sto affatto allenando la tecnica, sto coltivando la presenza. Sto affilando il cuore.
Un grazie al Maestro Giuseppe per ‘ospitalità.
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