lunedì 27 novembre 2023

Nell’abisso delle Arti Marziali

Il piacere, quello esperito, quello realizzato, e il desiderio, quello che si origina nell’immaginario, hanno bisogno l’uno dell’altro. Quando questo non avviene, quando questa società stimola il nostro desiderio con continue lusinghe di piacere senza mai lasciarci né la possibilità materiale né il tempo di fruirne, perché il succedersi repentino degli “oggetti del desiderio” vanifica ogni nostro sforzo costringendoci nel ciclo infinito di competizione, accumulo e desiderio, lì attecchisce il disagio. (1)

Un ciclo alienante in cui gioca un ruolo importante anche la ricerca di un senso al nostro vivere; senso che ci è facile trovare nel lavoro, nel lavorare (2). Non a caso chi non lavora è socialmente considerato “down”, anche quando è un pensionato, uno che ha alle spalle una vita di lavoro: “Sì ma ora non sei più produttivo, hai solo tempo, tempo da sprecare”. Per non parlare di chi fa del lavoro un mezzo di dignitosa facoltà di vita e non uno stressante obbligo, un vanto nella propria cerchia sociale, un distintivo segno di importanza. Ambedue, chi in pensione e chi non affoga negli impegni di lavoro, sono additati al pubblico ludibrio, “devono” sentirsi fuori luogo. (3)

Allora tocca ad una buona e sana pratica di corpo, di movimento, permettere all’individuo di sottrarsi a questo subdolo veleno, di disertare la cultura dominante fatta di bulimia nell’accaparrare, di consumo senza uso, consumo ostentativo (4), di obbligo a faticare per ottenere dal mondo quello che ci serve, o meglio, ci fanno credere ci serva e che poi si mostra caduco, sostituito subito da altro oggetto.

Una buona pratica che superi la mancanza di percezione del corpo, ridotto a cosa (Korper), dove al centro non ci sia più la mente, col corpo costretto ad adattarsi alle sue astrazioni, ma ci sia un individuo Leib, corpo esperito, abitato, consapevole di essere individuo proprio perché corpo.

Una buona pratica non è un insieme di esercizi standardizzati, uguali per tutti; nemmeno è un “personal trainer” che ti accompagna in gesti e movenze di semplice anatomia e fisiologia meccanica, come se tu fossi una macchina senza una tua personalità, un tuo carattere, una tua vita emotiva.

Una buona pratica è un viaggio di apprendimento coinvolgente e non solo una raccolta di informazioni gestuali. E’ un percorso di consapevolezza motoria che, “col” e “nel” fare, incontra l’ascolto delle pause e degli intervalli, consentendo a varchi di silenzio di aprirsi per portare “parole” di corpo del tutto nuove ed inaspettate.

Una buona pratica ci apre il contatto profondo con noi stessi e con l’ambiente intorno, in una relazione dinamica con il reale fatta di eventi concreti e persone e incontri.

Questa buona pratica, io l’ho trovata nelle Arti Marziali così come da me interpretate e proposte allo Spirito Ribelle Un modo del tutto avverso alla massificazione imperante: Piccoli o grandi supermercati di generiche tecniche ripetute e copiate. Nelle Arti Marziali che sono terreno di incontro e scontro fisicoemotivo (5), di carne in movimento, da cui nasce l’individuo vitale ed erotico: Il guerriero del terzo millennio.

 

1. https://www.instagram.com/cosebrutteimpaginatebelle/; https://www.instagram.com/agenziastanca/; ecco due voci interessanti e dissacranti.

2. “La gente non si ammazza di lavoro soltanto perché vuole guadagnare di più: questo comportamento nasconde, più in fondo, l’ansia di produrre senso, di giustificare in qualche modo la propria vita sulla Terra” (Colamedici & Gancitano “Ma chi me lo fa fare? – Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”)

3. “Il lavoro si trasforma, in questi casi sempre più diffusi, in una fede religiosa, perché promette identità, trascendenza e comunità. Identità, perché produce una mission e ti dice chi sei, cosa vuoi, quali obiettivi devi avere nella vita; trascendenza, perché ti connette con una vision capace di dare senso (o più spesso offrirne l’illusione); comunità, perché genera un parco fedeli con cui condividere ed espandere il proprio trust e rinsaldare la relazione tossica” (ibid)

4. “Si tratta, quindi, di un “consumo vistoso” non guidato da obiettivi “utilitaristicorazionali” bensì da motivazioni sociologiche quali l’ostentazione di uno stile di vita agiato, il riconoscimento di uno status sociale desiderato o un comportamento meramente emulativo che risponde a bisogni fittizi di appagamento personale e realizzazione sociale.” (F. Scudo. Tesi di laurea Anno Accademico 2017/2018)

5. “Tutti hanno un piano fintanto che non prendono un pugno in faccia”. (M. Tyson)

 

 


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