domenica 26 febbraio 2023

Fightworld

Magari una sola rapida occhiata, anche superficiale, ma perché non occuparsi di sport e arti di combattimento attraverso lo sguardo di chi le pratica?

E’ quello che ha fatto Frank Grillo (attore statunitense, praticante di arti marziali e sport di contatto, in particolare Boxe e Brazilian Ju Jitsu), in un breve (solo cinque puntate) documentario visibile sulla piattaforma Netflix.

Fightworld

Girato un pugno di anni orsono, ci presenta, attraverso i suoi praticanti, cinque discipline di cinque diversi paesi:

Il Messico, con l’interpretazione tutta cuore e ardimento della Boxe. Tratto comune e distintivo dei pugili messicani è il mai indietreggiare, rischiando tutto, accettando di prendere dei colpi per poterne restituire di più, sempre di più.

La Thailandia con il Muay Thai. Combattenti giovanissimi, entrano nelle palestre di Muay Thai per non gravare sulla famiglia e in cerca di un avvenire professionistico, conducono allenamenti massacranti in condizioni di vita miserevoli. Scopriamo che al successo economico del Muay Thai contribuisce in modo essenziale il gioco d’azzardo, così sfacciato che gli stessi atleti, durante il match, vengono aggiornati sulle quote della loro eventuale vittoria, condividendo una parte delle borse degli allibratori.

Il Myanmar, l’ex Birmania, con il Lethwei, sorta di Muay Thai con la possibilità di colpire di testa. Qui la povertà che spinge i giovani a cercare un riscatto nel successo sportivo si incontra (o scontra?) con la presenza di atleti professionisti e benestanti provenienti da tutto il mondo: Tentativo ben orchestrato di aprire la disciplina a un pubblico, (e a un business!!), più vasto. Il conflitto fra tradizione e modernità, con tutto ciò che comporta a livello morale ed economico, aleggia per tutta la puntata del documentario.

Il Senegal con la lotta Laamb, lo sport nazionale. La puntata vede due affermati campioni di oltre un quintale affrontarsi in uno stadio davanti a decine di migliaia di spettatori. Ambedue sono venerati nei rispettivi quartieri come eroi, semidei, in un legame profondo con lo spirito religioso del paese, con le radici e le tradizioni del paese. Se il tifo, il delirio, che i due suscitano ricorda gli eccessi del nostro tifo calcistico, la radicale differenza sta nella presenza costante dello spirito religioso e nell’atteggiamento di fronte alle cose della vita che si potrebbe definire rinunciatario, riassunto nella parola araba Inshallah, “Se Dio vuole”. Una caratteristica non solo della religione islamica ma pure del cattolicesimo più ortodosso.

Israele col Krav Maga. Qui si tratta non più di sport ma di vera e propria disciplina atta ad uccidere per non essere uccisi, di disciplina insegnata alle truppe israeliane come arma di difesa. Vedendo le immagini della puntata, appare evidente (per chi ancora non l’avesse capito!!) che il Krav Maga venduto nelle varie palestre anche qui in Italia non c’azzecca affatto con “il modo più veloce ed efficace per uccidere un uomo”. E non potrebbe essere altrimenti: lì, in Israele dei soldati, dei combattenti “vita o morte”, la insegnano ad altri soldati, a combattenti “vita o morte”; qui, civili, abilitati da qualche corso ad insegnare Krav Maga, lo propongono ad altri civili: impiegati, studenti, casalinghe, per qualche ora alla settima. Entrambi, docenti ed allievi, poi tornano a casa, alla loro tranquilla e paciosa vita quotidiana. Ah, cosa non si fa per un po' di soldi gli uni e per fingersi eroi combattenti gli altri!!

Un documentario più sulle persone che combattono che sul combattimento stesso, un documentario capace di mostrare l’umanità di cui sono intrisi questi sport.

Le puntate, per altro, fanno leva sulla pratica sportiva sia come possibile via d’uscita dalla povertà economica e sociale dei combattenti, sia come percorso educativo che tolga dalla strada e dalle tentazioni criminali gli strati più poveri della popolazione. Con il diffuso, ancorché fragile, benessere economico, unito ad una scolarizzazione massificata, quanto sopra pare strettamente riferito a zone del mondo vieppiù marginali, non ancora toccate dal cosiddetto progresso.

Oppure, proprio questo stato di benessere può innescare il bisogno di soffrire, di addentare la vita, di cercare “Il giorno da leoni di contro alla vita da pecore”, di passare attraverso riti di iniziazione che, appunto, il benessere ed una società vieppiù iperprotettiva, di maschi “mammoni”, ha fatto scomparire. Poi accadono “episodi avventati perpetrati dagli adolescenti che la società adulta fatica a comprendere” (http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/2023/02/il-professore-sul-ring.html) in cui non è difficile intravedere la ricerca di un “rito di passaggio”: “La qualità della mascolinità tradizionale – coraggio, durezza, impassibilità al dolore – trovano sempre meno posto nella società di oggi, al punto da portare alcuni a profetizzare “la fine degli uomini”. Ma, nel profondo, gli uomini hanno ancora bisogno di sentirsi uomini, e così, come Don Chisciotte, ci inventiamo i nostri draghi. Nella maggior parte delle culture, correre dei rischi assurdi rimane un prerequisito della virilità, e se i giovani maschi non affrontano più i pericoli in riti di passaggio formali, lo fanno comunque a modo loro. (J. Gottshall “Il professore sul ring”)

Molto perplesso mi ha lasciato una certa patina edulcorata sulla violenza di questi sport, ossia la minimizzazione dei danni che arrecano ai praticanti “agonisti”. Una minimizzazione che ho letto nel volume, sopra citato, “Il professore sul ring”, di Jonathan Gottshall (da me commentato in http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/2023/02/il-professore-sul-ring.html  ). Non è proprio così, come ci racconta il sociologo Alessandro Dal Lago in “Sangue nell’ottagono”, sottotitolo: “Antropologia delle Arti Marziali Miste”, e come ognuno può vedere su YouTube in “The darker side of MMA”.

Poi, come già scrissi in precedenti occasioni, per la “pagnotta” uno fa tanti sacrifici, dunque ci sta rischiare di perdere un occhio, incappare in gravi malattie dettate da traumi ripetuti tipo la encefalopatia del pugile, fino a morire mentre si combatte sul ring o nell’ottagono. Scelte legittime, ma non facciamo finta che picchiarsi a sangue sia una passeggiata!!

 


 

 

 

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