venerdì 26 giugno 2020

E ti penso corpo



 Sì, questo periodo di isolazionismo non può non averci suggerito qualcosa sulla vulnerabilità del corpo, di noi – corpo, e di quanto questo investa la nostra salute tutta, quella psichica, quella emozionale, dunque la nostra vitalità.
Il filosofo Merleau Ponty ebbe a scrivere “Io sono quell’animale di percezione e di movimento che si chiama corpo”, esplicitando una volta di più che non solo la separazione mente – corpo, ma anche l’unione mente – corpo, quel beffardo “mens sana in corpore sano”, non stanno in piedi, non hanno alcuna buona ragione o alcun buon intento. 

Infatti,
il corpo non è qualcosa di cui disponiamo,
ma siamo noi stessi integralmente corpo.

Purtroppo, in sintonia con i dettami dell’usa e getta, della mercificazione senza limiti, che non esclude il corpo, anzi, da questa sua perversione (secondo il sociologo e filosofo Jean Baudrillard, il corpo è diventato “il più bell’oggetto di consumo) questo “suggerimento” non ha fatto alcuna breccia nel senso comune.
Così, continuiamo a vedere i soliti runners, i soliti ginnasti, affollare corsi e sedute, parchi e palestre in cui modellano l’involucro corpo tirandolo da un lato e piegandolo dall’altro, irrobustendolo qui e stropicciandolo lì seguendo mode e dettami dal sapore ignorante e pedestre.

Sulle rive del Brenta, tra alberi enormi ed acque a scorrere lente, oppure calcando, tra case colorate, il prato rasato di un giardino vasto e sdraiato.
L’animale Ryu, il Drago, mi percorre tutto, scoprendomi a modulare il respiro in volumi tridimensionali, cassa toracica consapevole di avere, con un davanti, anche un dietro e due lati, come a toccare che sono torace dappertutto. Parrebbe cosa ovvia, ma, statene certi, non lo è. O lo è solo in teoria, perché la pratica corporea, di movimento, quanto lo sa? Quanto ne è consapevole?
L’animale Ryu, il Drago, mi percorre tutto, scoprendomi ad ampliare o moderare la colonna vertebrale già col semplice alzare di spalle, in un continuum armonioso in cui il tutto non è mai la semplice somma delle parti ed ogni singolo movimento di una parte investe il tutto. Parrebbe cosa ovvia, ma, statene certi, non lo è. O lo è solo in teoria, perché la pratica corporea, di movimento, quanto lo sa? Quanto ne è consapevole?

Così, scivolando tra Ryu, il Drago, e Tsuru, la Gru, e Tora, la Tigre, calco il terreno aspettando il vuoto, lo yin, il femminile, per dar vita al pieno, lo yang, il maschile. Ogni volta è la sorpresa del vuoto a calare il silenzio che diverrà suono, rumore, presenza nata dall’ignoto.
Troppo spesso abbagliati dalla luce, dal chiaro che presupponiamo sia certezza, dalla forza che presupponiamo sia energia, dimentichiamo la vita nel buio, nelle tenebre, nel nascosto, e la sua potente bellezza.

Che struggente sorpresa, mentre danzo Tanshu, la danza dell’animale predatore, incontrare il vuoto, lasciarmi stupire dall’assente, dal mancante, che quella carezza che manca, quella presenza che manca, quel piede che si fa lieve, persino assente, sul terreno, è l’unico modo per formarmi individuo adulto presente, abile e potente. E’ il modo migliore perché energia e vitalità salgano in primo piano.

D’altronde, alle nostre origini di feto, non fu lo spazio vuoto a permettere il crearsi del pieno? Non fu un modesto tubo (neurale) a permettere la creazione di quel complesso sistema di regia ed attività che è il sistema nervoso da cui origina ogni azione?

Abbiamo davvero bisogno di António Rosa Damásio, neurologo, neuroscienziato, psicologo, per comprendere che “probabilmente anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello”?

Possibile che una mente in grado di superare le leggi della fisica perché capace di immaginare luoghi e tempi violando dunque quelle leggi, di contro ad un corpo che è, per forza, sempre nel qui ed ora, sia motivo per ancora percepirci scissi dal corpo?
Non comprendiamo che ciò che chiamiamo mente
 è sempre ed ancora corpo?

Eppure offrire al corpo un riconoscimento e comprenderlo significa comprendere la realtà che ci circonda; eppure è la fisicità dell’individuo a rendere praticabile ogni narrazione, ogni ricordo; eppure sono io corpo che vivo e sento e sono responsabile di ogni mia azione.

Ed è questa consapevolezza corporea, questa ricca fisiologia del movimento, in grado di contrastare il dominio capitalistico dell’alienazione, della reificazione, dello sfruttamento.
La possibile trasformazione sociale, l’utopico “sol dell’avvenire”, parte da qui: dal senso di ogni individuo per se stesso e per come si muove, come agisce, che personalità va ad acquisire.

Ma, mi guardo intorno, e so che è una battaglia persa, almeno per ora.
Tra runners e ginnasti che si accaniscono con ogni strumento di tortura per modellare a loro piacimento il ventre o le cosce, ciclisti a sudare sulla bici ferma e inchiavata al pavimento nei folli corsi di spinning, atleti a sollevare e riporre, sollevare e riporre, sollevare e riporre lo stesso attrezzo con lo stesso gesto ripetuto e ripetuto in un’ossessione compulsiva… come se il corpo fosse un oggetto altro da sé, una maglia o un pantalone che si può accorciare o allungare, che riposto in un armadio si può lasciare per indossarlo nei mesi a venire!!
Come se ogni gesto, ogni movimento, non fosse portatore di sensazioni e pensieri ed atteggiamenti che, depositati nel cervello, ne influenzeranno ogni scelta di vita, faranno di noi un individuo che pensa ed agisce in un modo piuttosto che in un altro, che in un modo piuttosto che in un altro monta e smonta i propri giorni come i momenti.


“Le azioni sono inscritte nella carne ancor prima che l’intenzionalità consapevole agisca e detti comandi. Insomma, non è che abbiamo un corpo ma siamo corpo”
(G. Dall’Ava)









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