mercoledì 4 ottobre 2023

Chi me lo fa fare?

F., imprenditrice quarantenne, si lamenta che lavora troppo guadagnando poco, che sta troppo tempo fuori casa in giro per l’Italia con ciò lontana dal figlio e dal marito, anche lui sovente e per giorni e giorni fuori casa, che il figlio mantiene con lei un rapporto che oscilla tra disinteresse e ostilità aperta. O., cinquantenne manager di potere, ogni volta si lamenta che lavora troppo, certo guadagna anche molto, ma esce di casa prestissimo, torna per cena, subito schiantandosi di sonno sul divano senza riuscire a condividere nulla, avendo alle spalle conflitti continui con i clienti e dovendo prestare totale attenzione a muoversi in un ambiente lavorativo di “fratelli coltelli”; ricorda di aver fatto crescere i figli da una tata, condividendo poco o nulla della loro vita e trovandoseli “grandi” senza nemmeno accorgersene.

Nel crocchio che si forma ogni mattina ai giardini, quando l’argomento è lavoro e professione, è tutto un parlare usando (abusando!!) di parole in lingua inglese e sono in pochi ad accomiatarsi semplicemente con un saluto; eh no, con diverse sfumature il commiato è scandito a volte dallo scarno “Devo andare al lavoro” ma più spesso da ripetuti accenni a “Ho una call che mi attende”, “Anche oggi ho un briefing”, “Fino a stasera non ho un’ora libera” “Eh, starei ancora, ma mi tocca, cazzo!!” “Sono già le 08,30, con tutto quello che devo fare mi tocca scappare”. Un misto tra contrizione ed evidente piacere nel mostrarsi indaffarati, impegnati, Gli unici sinceramente afflitti dal dover lasciare i giardini sono i cani, che si sdraiano ostinati sul prato o recalcitrano ad ogni strappo del guinzaglio!!

Per ragioni anagrafiche (tra poco compirò 72 anni), mi capita di frequentare persone alle soglie della pensione, le quali, davanti a questo rapido avvicinarsi, alternano, con deboli momenti di sollievo all’idea di lasciare l’obbligo lavorativo, l’ansia di non saper che fare, l’ansia del tempo libero visto come una voragine nera in cui verranno inghiottiti. Con loro, persone che, all’indomani del pensionamento, sono già alla caccia di un’occupazione qualsiasi con cui riempire le giornate, impegni di volontariato di ogni tipo purché con scadenze di orario da rispettare, un “lavoretto” in nero, anche mal pagato, purché si possa dire “Eh, io lavoro ancora”. Niente libertà, niente padronanza del tempo, niente tempo impiegato in passioni, qualsiasi esse siano: No, obblighi formali di esserci e fare, di lavorare.

Sono loro gli inconsapevoli protagonisti, e vittime, di

Ma chi me lo fa fare?

Come il lavoro ci ha illuso: La fine dell’incantesimo

Quelli, per citare l’aletta del libro: “Efficienti, dinamici, creativi. Ma anche: sovraccarichi, avviliti, depressi. Stanchissimi. Pieni di lavoro. Divisi fra call, impegni familiari e pubbliche relazioni, la luce blu degli smartphone che ci illumina il viso, la notte. Oppressi dal lavoro ma anche del lavoro innamorati, rapiti, vittime di una sindrome di Stoccolma aziendale (1). Perché oggi il lavoro è tutto e tutto è lavoro”.

Se per molti, sempre più, lavorare è scambiare gran parte della propria giornata (tra tempi di spostamento, ore di lavoro effettivo, stanchezza e nervosismo con cui ammorbare le relazioni familiari una volta a casa, resoconti dell’immane carico di lavoro cui sono soggetti e dei conflitti con i colleghi propinati a incolpevoli familiari) con un salario di sopravvivenza o poco più, anche per chi guadagna tanto così da permettersi agio e lussi (2), la vita fuori dal lavoro è rimaneggiata nelle fessure tra una sessione lavorativa e l’altra.

Ormai il lavoro è imposto come viatico certo e fondamentale per la realizzazione personale, necessariamente colmo di significato, anche laddove il significato non c’è. Per riuscire in questo, si muovono apparati ideologici, che siano quelli del capitalismo o quelli della religione con i suoi dettami di sofferenza e penitenza subiti anche inconsciamente; le massicce campagne pubblicitarie che inducono sempre nuovi presunti bisogni, ovvero oggetti da possedere e puoi averli solo se hai i dané!!. (3) Insomma, generalmente la stragrande maggioranza dei lavori non ottempera alla realizzazione personale e, comunque, “Se è un buon lavoro, devi ritenerti fortunato. Ergo devi scontare la pena della tua fortuna” (Ma chi me lo fa fare? pg. 81).

No, non è un libro che inneggia al fancazzismo, una semplicistica teoria anarchica, una pur intelligente denuncia che si limita allo smascherare il moloch del lavoro ma nulla propone.

Gli autori, Andrea Colamedici e Maura Gancitano, entrano nel cuore del problema e prospettano diverse strade da praticare in cui lavorare non sia più l’idolo - demone della nostra vita. Quali? Beh, sta a chi tra di voi abbia preso consapevolezza del problema, a chi abbia un pur minuscolo dubbio nel veder scorrere il (NON ILLIMITATO!!) tempo del vivere senza goderne in buona parte, a chi senta su di sé il ridicolo di mostrarsi impegnato ed indaffarato per credersi vivo e realizzato agli occhi di se stesso e degli altri, aprire il libro e leggerlo…

 

“Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a qualsiasi paziente

consideri importante il suo lavoro”

(B. Russell)

1. “Particolare stato psicologico che può interessare le vittime di un sequestro o di un abuso ripetuto, i quali, in maniera apparentemente paradossale, cominciano a nutrire sentimenti positivi verso il proprio aguzzino che possono andare dalla solidarietà all’innamoramento. L’espressione fu usata per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito ad un episodio avvenuto in Svezia nell’agosto del 1973” (in Enciclopedia Treccani).

2. “Continuiamo a bere del pessimo vino preoccupati che i calici siano di cristallo.” (M. Stefanon)

3. “Nel senso moderno del termine, lo svago deve piuttosto essere considerato come fattore di produttività, non solo in quanto recupero o stimolante necessario rispetto al lavoro, ma anche in quanto consumo (…) L’attività di svago è un prodotto che si acquista (…)”. Così scriveva Marie Francoise Lanfant nel suo “Teorie del tempo libero” già nei primi anni ’70. Anni in cui, in quella che allora era la mia professione, partiti di sinistra (c’erano ancora!!) e sindacati discutevano di “tempo libero” e “tempo liberato dal lavoro”.

 

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