martedì 11 novembre 2025

Yuri e Neri: Immagini che respirano nel corpo del Kenpo Taikiken

 Il piccolo cortile sotto la mia abitazione accoglie flebili lame di sole, le ultime che un esile Novembre oppone all’avanzare del cupo autunno. Mi muovo lento, calpestando sassi e rade distese d’erba, attorno le mura di una casa, la parete di legno che avvolge il circolo ricreativo, alcune biciclette lì addossate, il malandato cancello che mi separa dalla strada. Minuscolo e nascosto spazio verde dentro una metropoli ormai affogata nel cemento.

Pratico lento e poi sprazzi improvvisi di rapidità vorace, quando il corpo si fa ascolto e ogni pensiero si dissolve nel gesto, emergono due correnti invisibili: Yuri e Neri. Non sono waza, tecniche, non sono forme. Sono onde interiori, movimenti primordiali che sorgono dal centro e si espandono come visioni incarnate.

Yuri / Neri sono immagini che respirano. Un’inspirazione che succhia, raccoglie, un’espirazione che si espanda, libera. Un gesto che non colpisce, ma rivela.

Nel primo di questi, Il corpo si flette come la marea che si ritira. Le braccia succhiano a sé l’energia dell’ambiente, a nutrirsene. L’aria entra, profonda, e con essa l’intuizione: Non per trattenere, ma per travolgere, onda possente, inarrestabile.

Poi l’espirazione: Un’esplosione che è tanto violenza quanto espansione. Il gesto si apre come un’onda gigantesca, che travolge senza urto, che abbraccia e spinge, che dissolve ogni distanza tra me e l’altro.

Nel terzo, il respiro è più sottile. L’ispirazione è un filo che si tende, una lama che si affila nel silenzio. Le mani si raccolgono come un ago che cerca il punto preciso, il cuore del bersaglio invisibile.

L’espirazione è una traiettoria, una penetrazione che nello squarciare svela. Come un pugnale che nell’aprire la carne fende la nebbia dell’illusione, dita assassine.

Ogni Yuri / Neri ha la sua propria immagine intimamente legata alla respirazione e a quel preciso gesto corporeo. Ogni Yuri / Neri è un’arma diversa: Trattiene, difende, evita, blocca e colpisce, disperde, scardina, travolge, in modo diverso.

Immagini che guidano il gesto

Ogni gesto si accompagna ad un’immagine che nasce dal respiro e si modella esprimendo l’immagine stessa. Ogni Yuri / Neri narra una storia guerriera diversa e senza questo immaginare, senza questa reverie, resterebbe solo gesto tecnico, vuoto waza, arida imitazione.


Perché non si tratta di imitare, ma di essere quell’immagine, di viverla in toto. Essere l’onda, essere il pugnale, essere il vento che raccoglie e il fuoco che espande.

Nel Kenpo Taikiken, il corpo non esegue, esso risponde. Risponde all’immagine che lo anima e gli dona la vita, al respiro che lo guida, alla necessità che lo attraversa.

Il ciclo eterno: Inspirare per conoscere, espirare per manifestare

Così, nel fluire di Yuri /Neri, tra raccogliere e circondare, tra onda e pugnale, il praticante diventa poeta del gesto, pittore dell’invisibile, testimone di un’arte che respira. Individuo vitale ed erotico.



Uno dei prossimi Martedì, esploreremo quanto, facendo

 dell’immaginare, di reverie, la scrittura del nostro praticare

Yuri / Neri.







mercoledì 5 novembre 2025

L'Arte della Guerra cap. 2

 L’Arte della Guerra, di Sun Tsu (circa VI secolo a.c.) 

Brevi riletture nel terzo millennio che pongono domande, che sollecitano dubbi, che avanzano proposte 

cap. 2

Il Soffio Breve della Vittoria

Generoso silenzio tra i praticanti, il tatami custodisce orme di passi consapevoli, ecco risuonare l’eco delle parole di Sun Tzu simili ad antico sutra: Una vittoria rapida è il principale obiettivo della guerra. Cosa significa vincere, per chi pratica l’arte del corpo e dello spirito? Per chi pratica Bujutsu, dove l’obiettivo è sopraffare per non essere sopraffatti, come passaggio ineliminabile e necessario dentro Budo, l’arte del saper vivere serenamente, del contribuire ad un mondo migliore?

Nel gesto della percossa che non colpisce, nel passo che evita invece di affrontare, si cela il principio del tempo breve. Il praticante non cerca il conflitto, ma lo dissolve. Non si perde nel labirinto della contesa, ma lo attraversa come vento tra le canne. Nessuno ha mai tratto profitto da una guerra prolungata. Così, anche nel combattimento, il tempo è misura di saggezza. Prolungare lo scontro è alimentare il fuoco dell’ego: Chi studia la Via, spegne le fiamme con un solo soffio.

Le Arti Marziali, come le intendo io, come le intendiamo qui allo Spirito Ribelle, non sono esaltazione della forza, ma danza del pericolo. Tutti quelli che non sono coscienti del pericolo che comporta l’uso delle armi, non potranno mai comprendere i vantaggi che derivano dal loro utilizzo. Il coltello, la spada, il corpo stesso sono strumenti che possono ferire, ma anche proteggere. Chi li impugna senza paura, ignora la loro ombra. Chi li impugna con rispetto, ne conosce la purezza.

La guida sensata e capace insegna agli allievi non a prevaricare, ma a vedere. Ad intuire lo scontro prima ancora che sorga, a vedere l’opponente come specchio di sé, a considerare la vittoria come dissoluzione di ogni sentimento ostile.

La pratica diventa allora poesia incarnata: La percossa che non parte, la guardia che accoglie, il corpo che si fa ku, vuoto, per non essere colpito.

In questo spazio sospeso tra gesto e intuizione, tra strategia e compassione, l’Arte della Guerra si trasforma in Arte della Presenza. E il praticante, come il generale saggio, non cerca la guerra, ma la sua fine.







venerdì 31 ottobre 2025

L'Arte della Guerra cap. 1

 


L’Arte della Guerra, di Sun Tsu (circa VI secolo a.c.) 

Brevi riletture nel terzo millennio che pongono domande, che sollecitano dubbi, che avanzano proposte 

cap. 1

Il cuore dell’imprevedibile: Arte Marziale come ascolto del continuo mutare

La guerra un avvenimento di vitale importanza per lo Stato, il terreno della vita o della morte, il passaggio che porta alla sopravvivenza o all’annichilimento: E’ dunque necessario uno studio serio ed approfondito” (Sun Tsu)

Affrontare ogni avvenimento richiede conoscerlo a fondo,ma che significa “conoscere”, quando ciò che accade è aria che cambia direzione, nuvola che muta forma, volto che si trasfigura nel tempo? Nel cammino marziale, come nella vita, non vi è mappa che possa contenere e spiegare l’intero territorio. Ogni scontro, ogni incontro, è un microcosmo dell’imprevedibile, un frammento dell’infinito che ci chiama a rispondere non con stolida certezza ma con accorta presenza.

L’imprevedibilità non è ostacolo alla pratica. Essa è il suo respiro nascosto. Come il vento che non si lascia afferrare, ma che può essere ascoltato nella piega di una foglia, così l’evento inatteso non si può sempre (mai?) dominare, ma si può attraversare. E per attraversarlo, occorre che il sé - corpo sia pronto, non pronto nel senso di una forma perfetta, di una conoscenza totale acquisita, ma pronto nel senso di una disponibilità radicale. Ecco la necessità, nella pratica marziale, di una gestualità formata non a ripetere, non ad imitare, ma a rispondere adeguatamente. Una strategia non per vincere, ma per comprendere. Una tattica non per controllare, ma per dialogare con l’incertezza.

La pratica costante è il nostro giardino. Ogni giorno,anche nel quotidiano del camminare, sedersi ed alzarsi, mangiare, leggere un libro, lavare i piatti ecc. occorre seminare movimenti, irrigare l’attenzione, potare le rigidità. Non per costruire una barriera, ma per coltivare una sensibilità che sappia sbocciare anche nel caos, nel disordine, nell’imprevedibile. Non per rifugiarsi nelle certezze di quell’Arte, di quello stile, ma per mettere alla prova kokoro, il cuore dell’Arte, ed hon, i fondamenti dell’Arte, su terreni sconosciuti.

Conoscere l’avvenimento è conoscere noi stessi. Ma noi stessi siamo parte ineliminabile dell’avvenimento. Siamo il fluire, il ritrarsi, il rispondere. Siamo il gesto che nasce nel vuoto, il pensiero che si curva, il respiro che si adatta. E allora, la pratica marziale diventa rito di ascolto, laboratorio di trasformazione, poesia incarnata nel conflitto.

Non si puo' sempre prevedere. Si può invece formarsi ad essere. Essere nel mezzo dell’onda, nel cuore del colpo, nel trambusto che precede l’azione. Essere come il cerchio che non ha inizio né fine, ma che accoglie ogni punto come centro.



mercoledì 29 ottobre 2025

Il mio pensiero di Novembre 2025

 

Ku, il vuoto fertile che folgora: Arti Marziali e autorealizzazione



Nel silenzio che precede il gesto, quando il piede sfiora il tatami e il respiro si accorda al battito del mondo, nasce la pratica guerriera. Le Arti Marziali non sono solo tecniche di difesa o coreografie di potere: Sono percorsi di individuazione, per usare il pensiero di Carl Gustav Jung, di incarnazione, ovvero rituali che modellano l’essere nella sua forma più autentica. Ogni movimento è un pittogramma disegnato nello spazio, una poesia che il corpo scrive per ricordarsi chi è e come potrebbe essere, sorta di psicoterapia incarnata.

Autorealizzarsi, in questo contesto, non è una meta da raggiungere, ma un processo da abitare. È lo sbocciare di tutte le potenzialità dell'individuo, contattato nella sua incarnazione, non come idea astratta, ma come presenza vitale, carne che vibra, shen, spirito, che danza. È la pienezza di vita che si esprime nella libertà di un gesto non condizionato, nell’autonomia di uno spunto che non cerca approvazione ma personale verità.

Il Dojo come tempio dell’Essere

Nel Dojo, ed ogni luogo può essere Dojo, ‘luogo dove si segue la Via’, ogni gesto è una dichiarazione di esistenza. Il saluto iniziale non è vacua formalità, ma invocazione: “Eccomi, sono qui, pronto a incontrare me stesso attraverso l’altro.” Il compagno di pratica diventa specchio, ostacolo, alleato. E nel confronto, l’energia Ki / Chi si espande, si libera. Non per dominare, ma per rivelare.

La disciplina nella pratica, soprattutto, per me, per noi Spirito Ribelle, quando non è autoritaria, militaresca, ma libertaria, non è costrizione bensì cornice. Dentro di essa, il sé - corpo trova insieme voce e silenzio, la sua autonoma e personale direzione. L’autorealizzazione, l’individuazione, si manifesta quando il praticante non imita, ma dall’esempio, dallo stimolo esterno, crea. Quando ogni sequenza diventa danza personale, quando il combattimento si trasforma in dialogo, serrato e passionale sì ma sempre dia logos (che è dove ragione e significato non stanno da una parte sola, ma emergono dal confronto), quando l'aspetto tecnico si dissolve nella presenza.

Espandersi come il Soffio, liberarsi come il Fuoco

Autorealizzarsi, camminare dentro l’individuazione, è un atto di coraggio: E’ dire sì alla propria incarnazione, accettandone anche la parte Ombra e, con essa, l’impossibilità di darle luce. Le Arti Marziali insegnano attraverso il corpo. Ogni caduta è una lezione di gravità e grazia. Ogni intercetto è un confine che riconosce, protegge ed accoglie. Ogni percossa è una domanda: “Chi sei? Chi sei realmente?

Allora, quando il praticante smette di cercare fuori e comincia a cercare e sentire dentro, l’energia, da materia fantasiosa, inconoscibile, si fa fiume. Scorre, rompe gli argini, nutre. La libertà non è più fuga, ma radicamento nel “qui ed ora”. L’autonomia non è isolamento, ma relazione consapevole con le mille parti che compongono il sé come con gli altri fuori dal sé. La vita non è più consumo e sopravvivenza, ma espressione.

Il Gesto che rivela

Le Arti Marziali, nella loro essenza più profonda che è Neijia / Naido (lavoro interno), sono pratiche di autorealizzazione incarnata. Non si tratta di diventare qualcun altro, di obbedire ai dettami, importati dalla cultura USA, che impongono perfezione e prestazioni strabilianti, ma di tornare a sé. Di esplorare le proprie potenzialità non come ambizioni, ma come verità, quand’anche scomode, da vivere. Di espandersi, esplodere, liberare energia non per prevalere ma per essere, essere individui vitali ed erotici.

Nel gesto che nasce da hara, il centro, nel respiro che si accorda al mondo, nel silenzio che precede evitamenti e percosse, si nasconde il segreto: L’autorealizzazione, l’individuazione, è già qui ed ora, nel corpo che pratica, nel cuore che ascolta, nell’animo che fluttua nello spazio del Dojo, qualunque ed ovunque esso sia.

lunedì 20 ottobre 2025

Il suono che taglia il vuoto

 


Riflessioni ‘a freddo’, ovvero alcuni giorni dopo l’aver tagliato a distanza di anni dall’ultima volta. Tagliato bersagli non ortodossi, in sé disdicevoli, ma gli unici che potessi affrontare data la chiusura dell’esperienza ZNKR. E’ che ritengo fondamentale, praticando di katana, praticando Kenshindo, non perdere ‘la mano’ sul Tameshigiri. Non mi capacito, infatti, di come in giro circolino docenti e praticanti katana che non sono avezzi al Tameshigiri,a tagliare, eppure insegnano e praticano con un’arma da taglio!! Ah no, in realtà sono soliti impugnare uno iato, che arma non è perché costruito con una lega contenente un'alta percentuale di alluminio e privo di affilatura: E’ solo un gioco, un passatempo per credersi samurai? Un po' come quei docenti di coltello e difesa da coltello privi di alcuna esperienza reale, di strada, di cosa significa combattere con un coltello o contro un coltello, che intortano gli allievi addestrandoli con coltelli di plastica: Giocattoli per adulti rimasti bambini che si illudono di essere Rambo o John Wick.





C’è un momento, prima del taglio, in cui l’intero mondo trattiene il fiato. Il corpo si allinea, il pensiero scema e la lama, sospesa, ascolta.

Poi il gesto si compie. Un sibilo flebile e netto, una traccia sonora che fende lo spazio come un ideogramma inciso nel vento. Non è rumore. È voce assoluta.

Il sibilo del katana nell’aria non è mai lo stesso. A volte è carezza, a volte è ingiuria. A volte è canto solitario che risveglia le ombre del Dojo.

Quando pratico Tameshigiri, quel suono è il mio interlocutore. Mi dice se ho esitato, se mi ha animato prepotenza, tracotanza invece che precisione, se ho tagliato con kokoro, il cuore, o con l’orgoglio.

Il bersaglio si apre, ma è il suono che rimane. Rimbalza sulle pareti, scende sul pavimento, si insinua tra le pieghe del mio keikogi come una domanda che non smette mai di chiedere.


Ogni taglio è una risposta monca. Ogni sibilo, una confessione, una richiesta di espiazione. E così, nel vuoto del Dojo, la lama diventa strumento di ascolto, e il suono, maestro invisibile.

Sì, ne sono sicuro, questa volta farò di tutto per non lasciare passare anni prima della prossima seduta Tameshigiri. E magari riuscirò ad affrontare stuoie o canne di bambù, come da Tradizione.





giovedì 16 ottobre 2025

Il taglio che resta

 Mercoledì 15 di un Ottobre caldo e fiacco, scendo le scale che portano al Dojo del Maestro Giuseppe.


Nel Dojo vuoto, il silenzio è più denso dell’aria. Non c’è più il cerchio degli allievi, nessuna eco di saluti, nessun scalpiccio di piedi sul tatami. Solo il respiro, il mio.

Il katana impugnato tra le mani come un animale primitivo, non chiede nulla, ma tutto ascolta. È lama e specchio, è compagno e giudice. Nel suo filo esangue si riflettono le ore passate insieme, le voci che ora mancano, i sorrisi che il tempo ha disperso come foglie nel vento.

Pratico da solo. Ma non sono solo. Ogni gesto è una memoria incarnata, ogni kamae un richiamo al passato recente, ogni taglio un legame tra ciò che è stato e ciò che ancora pulsa.

Davanti a me, i bersagli soffici: Materia che non oppone resistenza, ma comunque chiede precisione. Verrà, confido, di nuovo il tempo del Tameshigiri su stuoie e bambù, ma ora, chiuso da anni il locale che fu ZNKR e non più rinnovati seminari e stage all’aperto, tocca adattarmi, ripiegare su materiale improvvisato pur di non perdere l’attitudine al taglio.

Il Tameshigiri, come lo intendo io nel rispetto della Tradizione, non è sfoggio di abilità tecnica né tantomeno sport a “chi lo taglia più grosso”, è invece cruda confessione. È il momento in cui la lama dice la verità che il corpo fatica a pronunciare.


Taglio. Ci vogliono almeno sei sette sequenze di tagli che sono invero strappi, goffe ed imprecise lacerazioni, prima che il taglio sia davvero un sottile filo a dividere, a tranciare di netto. O, almeno, i bordi inerti dei bersagli non offrono più rilievi ed ostruzioni poi così evidenti.

Nel taglio, il tempo si ferma. Non c’è rabbia, non c’è ostentazione né trionfo. Solo il gesto puro, la linea netta che separa l’inutile dall’essenziale. Il bersaglio si apre come un fiore d’acqua, e io, per un istante, mi sento intero.

Il gruppo si è dissolto, ma la Via non si spezza. Cammino su un sentiero che ora è più stretto, ma più profondo. Ogni pratica è un’offerta, ogni taglio un haiku inciso nell’aria.

E quando il sole del mezzogiorno che bussa alla porta filtra tra le finestre del Dojo, illuminando l'oscillare disordinato della polvere, so che non sto affatto allenando la tecnica, sto coltivando la presenza. Sto affilando il cuore.

Un grazie al Maestro Giuseppe per ‘ospitalità.





sabato 11 ottobre 2025

Il silenzio dell’acciaio: Il coltello come compagno nelle Arti Marziali

 “Un coltello è un buon amico quando non hai nessun altro.” Non è una frase di violenza, ma di solitudine. Di presenza. Di assoluta verità.


Nel vuoto profondo che precede il combattimento, quando il respiro si fa più lento e il mondo si ritrae in un cerchio di silenzio, il coltello non è un’arma: E’ un confidente.

Non a caso, nella nostra italica cultura, era chiamato “il servo silente”. Lui non tradisce né mente. È lì, impassibile e lustro, come la luna sopra un campo di battaglia dimenticato. Ti guarda, e ti chiede: “Sei pronto a vederti davvero? Davvero dentro?”

Il Coltello è specchio

Nelle Arti Marziali, il coltello non è solo un oggetto da impugnare. È un’estensione della personalità, che tu lo riconosca o meno; è una lama che recide ogni illusione. Ogni gesto con lui è una confessione perché la traiettoria svela il pensiero, la postura svela il cuore. Chi pratica con il coltello non lo possiede né lo domina... lo ascolta, se ne è capace.

Il coltello è un amico fedele perché non ti lascia scappare. Ti costringe ad essere preciso, presente, autentico. Non c’è spazio per distrazione, per teatralità. Ogni gesto, ogni fendente, è reale, ogni errore è scavato nell'acciaio.

La Solitudine del Guerriero

Quando sei solo e non hai nessun altro accanto, non il Maestro, non il compagno di pratica, né alcuna certezza, il coltello è lì, non ti abbandona. Come ti è compagno nel Dojo così ti è accanto tra le pieghe dell’animo, nel dubbio che precede la trasformazione. È lì, come un cantico tagliente, che ti svela: “La tua forma è il tuo pensiero. Il tuo pensiero è la tua lama.”


In questa solitudine, il coltello diviene rituale. Non per lacerare, ma per scolpire. Non per distruggere, ma per svelare. È il compagno fidato che ti insegna a camminare sul confine sottile tra controllo e abbandono, tra tecnica e intuizione.


Il coltello come voce silenziosa

Nel Kenpo cinogiapponese, nel Kali filippino, nel Silat indonesiano, il coltello danza. Non urla, non strepita, non aggredisce: Bisbiglia, sussurra. È una voce che allude attraverso il tuo corpo, la tua gestualità; che narra storie di antenati, di sopravvivenza, di morte data per necessità o per piacere, di eleganza nascosta nella ferocia.

Chi lo pratica con kokoro, cuore, sincero scopre che il coltello non è mai solo. È la memoria di chi ha camminato prima, la disciplina di chi ha scelto la retta Via, il canto di chi ha trasformato il pericolo in arte.


Il coltello è il miglior amico quando non hai nessun altro perché ti ricorda che, nel silenzio, tu sei ancora vivo. E che ogni lama, se ascoltata, può diventare la penna che scrive di te e della tua storia vera.





martedì 7 ottobre 2025

Il Cerchio che Danza: Pa Kwa / Hakkeshou come racconto vivente

 La debolezza, lo so, è sempre una forma di male, più nascosta, latente, ma ugualmente fa marcire ogni raccolto. L’importante è non confondere ‘debolezza’, che è fragilità e remissività, con ‘cedevolezza’, che è flessibilità e adattabilità.


L’importante è formare un corpo aperto dentro, capace di allinearsi, di succhiare (il verbo preferito dal Maestro Xia Chaozen) ed espellere lentamente, come acqua che score attraverso un filtro.

E’ nel cuore del movimento flessibile ed elastico, là dove ogni gesto si fa parola e il respiro si fa racconto, che nasce il cerchio. Non una semplice figura geometrica, ma un grembo simbolico, un luogo sacro dove i corpi si dispongono come lettere di un alfabeto antico, pronti a scrivere insieme la storia di un’identità insieme costruita ed insieme condivisa.

La danza in cerchio non è spettacolo, ma rito. È il ritorno al principio, quando il gesto non era ancora separato dal significato, quando muoversi voleva dire appartenere. Ogni passo, ogni rotazione, ogni apertura delle braccia è un segno che parla, che evoca, che ricorda. È il linguaggio silenzioso di una comunità che si riconosce nel ritmo, nella forma, nella ripetizione che non è mai uguale.

Danzare è sperimentare ed esprimere con la massima intensità il rapporto dell’uomo con la natura, con la società, con l’avvenire e i suoi dei”

(V. Bellia ‘Danzare le origini’)

Nel Pa Kwa / Hakkeshou questa danza si propone Arte Marziale, ma non nel senso della lotta: Nel senso della relazione. Otto direzioni, otto trigrammi, otto archetipi che si dispiegano come petali attorno al centro. Il praticante non si muove da solo, egli si muove ‘con’, si muove ‘per’. Il cerchio funge da interlocutore, da specchio, da eco.

Ogni gesto nel Pa Kwa /Hakkeshou è un gesto che odora di radici profonde. È un gesto che porta con sé il peso e la grazia di una narrazione collettiva. Il palmo che si apre non è solo tecnica, è offerta, è invito, è memoria. Il passo che svolta non è solo hejo, strategia: E’ ascolto, è adeguamento, è danza con l’imprevisto. E quando più corpi si muovono insieme nel cerchio, il Pa Kwa / Hakkeshou diventa poema incarnato, tessitura di storie che si intrecciano senza bisogno delle parole.

In questo spazio, il gesto non è mai neutro. È carico di simboli, di vissuti, di sogni. È il modo in cui una comunità, minuscola o grande che sia, si racconta, si trasmette, si rinnova. Il cerchio diventa allora un archivio vivente, un luogo dove l’identità non è definita, ma continuamente danzata, dove il passato si fa presente nel corpo, e il presente si apre al futuro nel ritmo.

La pratica del Pa Kwa / Hakkeshou in cerchio non è solo esercizio: E’ celebrazione. È il modo in cui ci ricordiamo chi siamo, insieme, e ‘come’ siamo. È il modo in cui il gesto diventa ponte, il corpo diventa casa e il movimento diventa canto.

Allora, nella relazione, nel confronto, si scopre che il Pa Kwa / Hakkeshou è anche lotta letale, che non dà scampo; lotta mortale di cedevolezza’, che è flessibilità e adattabilità.




giovedì 2 ottobre 2025

Giochi preparatori ai Push Hands /Sueishou: L’arte dell’ascolto incarnato

 


Nel silenzio fertile tra due avambracci che si sfiorano, si origina un linguaggio antico. Non fatto di parole, ma di pressioni, cedimenti, spirali. È il preludio ai Push Hands /Sueishou, ma già qui, in questi giochi preparatori, si dischiude un mondo: Quello dell’ascolto incarnato.

Due corpi si incontrano. “A” preme, con volontà che non è aggressione, ma proposta. “B” non risponde con forza, ma con densità. Assorbe, addensa, scarica al suolo. Come la pioggia che non combatte la dura superficie, ma la attraversa, goccia dopo goccia.

Gli avambracci si toccano. Cerchi invisibili si disegnano nell’aria. Non c’è chi comanda, non c’è obiettivo. Solo il seguire, l’essere condotti, il lasciarsi plasmare dal ritmo dell’altro, dal ritmo condiviso.

A” a volte si fa pieno, altre si fa vuoto. “B” resta in ascolto, come il mare che accoglie ogni onda. Non c’è reazione, ma presenza. Non c’è difesa alcuna, ma disponibilità totale.

La pelle diventa sensore. Le ossa, antenne. Ogni variazione di ritmo, ogni cambio di direzione, è un messaggio. “A” parla con il corpo, “B” intensifica l’ascolto, si apre ad ogni pur modesta variazione.

Quando “A” preme, “B” non si oppone. Si flette impercettibilmente, devia, cede. Minuscoli movimenti, nascosti dentro la flessibilità del corpo, articolazioni e tessuto connettivo, sorta di totale intelligenza motoria. Non si lascia squilibrare, ma danza con la forza ricevuta.

È un gioco sacro. Un laboratorio di relazione. Qui si impara a non dominare, ma a dialogare, a non vincere, ma a comprendere.

Push Hands /Sueishou non sono solo tecnica. Sono poesia in movimento, filosofia incarnata. Sono l’arte di essere con l’altro, senza mai perdere se stessi.

Poi, Push Hands / Sueishou veri e propri, fino allo scambio libero, Sanshou. Ma non ora, non oggi, non in questo breve video.