martedì 25 agosto 2015

Spingere e tirare


Pensieri d’Agosto in un crogiuolo in cui:
Metti ordine nei tuoi pensieri, fantasie, sentimenti. Altrimenti essi ti sconvolgono, ti lacerano, ti buttano in direzioni opposte e tu rimani, senza accorgertene, privo di forza”
(in ‘Esorcismi di Gesù nel vangelo di Marco’ di G. Burani)

 

E’ la gloria della grande impresa l’illusione.
Che sono le piccole imprese quotidiane, le sconfitte come le vittorie, a reggere il timone. A dare la direzione alla nave di ogni eroe, vele gonfie dal vento, simili a enormi mammelle di una gigantessa procace, oppure smunte vele fiacche, penduli seni inerti di un’anziana viaggiatrice.
Non importa. Importante è solcare il mare aperto.
Sono le piccole imprese quotidiane, radersi la barba rendendomi presentabile allo specchio che mi dice chi sono; sorridere al gesto scorbutico e avventato di chi non sa comprendermi; aprire il cuore all’arroganza adolescenziale di un figlio mostrandogli il lato vulnerabile di me padre, perché ciò sia stralunato quanto coraggioso esempio di guerriero forte nella sua tenerezza.

E siamo io, Lupo ed Emma, la cugina coetanea, al parco faunistico Cappeller.
Concentrato di animali esotici, alcuni di cui nemmeno sospettavo l’esistenza: cane procione ? Altri conosciuti proprio qui la mia prima visita: orso gatto, vorace predatore notturno dalle movenze di velluto.
Tra curiosità di vedere, osservare ed un alone di tristezza per l’ossessiva – compulsiva traccia sul terreno che lascia l’ocelot nel suo ripetuto andare da destra a sinistra, da sinistra a destra.

 
La legge, l’etica e la morale e la giustizia. Onde di un mare sempre in movimento, inafferrabili, impossibili da fissare. Stelle incandescenti, ammasso di gas, “nane rosse” che, mentre l’idrogeno tende a ridursi, già mutano in  stelle “sub giganti”.
Forse sarebbe meglio usare articoli determinativi al plurale, che ognuno ha la sua verità, la sua legge, la sua etica e la sua morale: mille di ognuna in ogni onda che corre sul letto del mare, in ogni spuntone di pannocchia che il vento fa tremare davanti a me.
Come le buone azioni, che sono buone per alcuni e non per altri.
Mi irrita il “pensiero unico”, la verità, la certezza brandita come assoluto verbo divino, agita col presupposto che esista un solo dio, una sola divinità, che ci sia una ed unica, incontrovertibile, realtà.
Ogni momento mi stupisco dell’imbecillità di chi, chiuso nell’armatura del “pensiero unico”, predica IL bene, IL certo, senza alcun pensiero per le conseguenze, per il tessuto di relazioni che lo circonda e che ne fa mondo, ambiente. (1)
No, non sono ateo” rispondo a mio figlio Lupo “sono taoista”, come a dire lo sforzo fragile e spesso impotente di comprendere il tutto e nel tutto anche di criticare, combattere, affermare, ingaggiare assumendomi piena responsabilità di essere solo una parte di questo tutto e non LA giustizia, LA legge, LA morale, LA verità; non quel “pensiero unico” ottuso e prepotente che ha la pretesa insana di essere IL Giusto, di essere IL TUTTO.
Mi pare fosse Bertold Brecht a scrivere che “Quando l’ingiustizia si fa legge, la resistenza è un dovere”.

E scorro Tai Chi Chuan, la tenerezza offerta al tramonto rossastro del sole. Scorro mani e respiro, giravolte e passi prudentemente  feroci.
Danza d’amore e di morte. Danza di parte e non del tutto.

1. Azzardo a sostenere che tra i fondamenti del “pensiero unico ci siano i tratti narcisistici.
Narciso, il protagonista della società d’oggi, è ipnotizzato dalla propria immagine. (…) La fissazione narcisistica fa sparire  dall’orizzonte di chi ne è catturato la realtà delle altre persone e l’intera realtà materiale; rimangono solo le immagini di riferimento, la propria e quelle degli idoli del collettivo, sottratte a ogni verifica materiale e a ogni autentica relazione fisica e affettiva. In questo vuoto i sensi, intermediari del rapporto tra il soggetto e il resto del mondo, progressivamente si atrofizzano e perdono forza, espressione e vitalità. Anche la loro immagine, nei sogni, gradualmente svanisce, diventa segno, cicatrice, ricordo”.
(C. Risé)

 
 Se ti colpiscono, meritavi di essere colpito”, scrive Joe Abercrombie in “Mezzo Mondo”.
Sussurri di vento, appena percettibile, in ascolto di un silenzio assordante che origina da un dove lontano, dieci anni e più lontano, eppure lo ricordo ancora distintamente. Sono senza parole e mi sento urlare. Amici, poi intimi, saranno gli atti e le cose e le danze traballanti di gambe malferme che reggono un cuore dal ritmo sempre più stanco, a mostrarci estranei.
Nessuna vergogna, solo pudore e tanto, infinito dolore.
Nessuno potrà mai sostenere che il campo di battaglia è giusto. Tanto meno io, che di formazione, esperienza, passione e insieme disciplina, faccio struttura portante del mio vivere quotidiano. Sfrontatamente però sostengo che sì, puoi perdere con la vulnerabilità, l’inquietudine, dunque anche quando ti affidi a fragilità e debolezza. Ma preferisco di gran lunga la violenza terribile di un’irrequietezza che si fa tempesta cieca ad ogni raziocinio, di una tristezza che esplode in mille pugnali affilati e sanguinari lanciati a vorticare tutt’intorno che la maschera greve dell’autoritarismo arcaico o lo  sfuggente camminare rasente i muri dell’apatia che si fa distacco o, peggio, sottomissione.

L’acciaio del katana è tanto sottile quanto letale, mortale.
Da qualche parte, ora non ricordo, ho letto che “Chi pronuncia la sentenza, dovrebbe essere anche colui che cala la spada”. Ma non sempre è così semplice.

Poi, nei giorni a seguire, il dolore e le fatiche dei gesti a precedere le parole necessarie. Quelle che ricongiungono, che ricuciono lacerazioni e ferite slabbrate. Dentro e fuori. Nel terreno di ognuno e dei campi coltivati insieme.
Il padre è un fornitore di direzioni, perché ne è stato un appassionato cercatore e continua a esserlo.
Per questo, e diversamente dai tanti gadget dei discorsi psicologici, il padre incrocia a più riprese, non solo la luce, ma anche l’oscurità, non solo la salute, ma anche la malattia. Perché un padre è vero, e non un gadget da vetrina psy, e perché nell’anima dell’uomo c’è la luce, ma anche la tenebra.”. (C. Risé)

 
 Accendere il desiderio” (R. Massa).
Quello mai sopito di volare, che, probabilmente, è dentro ogni uomo sulla terra. Quello di librarsi in cielo sospeso e affidato ai voleri del vento. Insieme fragile e potente.

Il minuscolo seggiolino a volte mi fa sobbalzare, inquieto come un’animale folle, instabile come sabbia che ti scivoli sotto i piedi. Altre pare sostenermi tranquillo e solido nella sua pienezza, permettendomi di scorrere lieve tra le pareti della montagna, di innalzarmi sui boschi come se la volta del cielo non finisse mai.
Sono i miei quarantacinque minuti di volo in parapendio: sorprendente regalo di Monica e Lupo che hanno afferrato .. “al volo” un paio di mie esclamazioni quando vidi volare le grandi ali di questi aquiloni un paio di mesi fa. Afferrate “al volo” allora e tramutate nella sorpresa di un regalo, oggi Martedì 4 Agosto.
Volo, sono unico nel cielo, rassicurato dalla presenza vigile di Roberto, l’istruttore, a condurre le ali dell’aquilone.

C’è sempre una via d’uscita, anche nei momenti di gran confusione, dove i conflitti si fanno più aspri, dove non sai mai cosa è bene e cosa no.
C’è sempre la facoltà, il dovere ?, di mettere la nostra mano dentro il corso del destino.
Lo sento sulla pelle e nel cuore, mentre il vento mi sfida la faccia, mentre so, sento, che sono solo un piccolo uomo su un seggiolino minuscolo dentro uno spazio infinito.
Me ne vado a zonzo in cielo, seduto su un seggiolino e sotto le ali di un aquilone, vagando tra luci azzurre e macchie lontane di verde. So che se il tempo davvero rappresenta qualcosa, ho il dovere e il piacere di cavalcare il vento nei miei giorni quotidiani. Se non  voglio precipitare al suolo.
I quarantacinque minuti finiscono. Adrenalina, respiro, le gambe rese malferme dall’inattività. I volti sorridenti di chi mi aspetta a terra.

 Nero acciaio. Nasce a Tualatin, nel cuore dell’Oregon, mostra oltre 15 cm. di lama. Strumento di penetrazione e morte. Impugnatura anatomica, acciaio brunito CPM 3V, a confondersi con le mani scure della notte, forma sinuosa, la cui eleganza solletica i più bassi e brutali istinti predatori.
Ma sono io, Tiziano, ad impugnare la possibile morte ambita da questo splendido Zero Tolerance, coltello tattico da combattimento.

Come a dire la stupidità, la superficialità e forse … altro, di intellettuali e mass media che stigmatizzano pesantemente la presenza di armi (da fuoco, da taglio) in occasione di stragi di massa o delitti familiari e fatti di cronaca nera in genere, come se queste ultime fossero dotate di vita propria, soprassedendo sulle deficienze,, quando non le devastazioni, psichiche ed emotive, che spingono la mano umana ad armarsi e ad uccidere.
Dettagli elargiti a volontà sul tipo di arma: il fucile a pompa calibro 12, la semiautomatica calibro 38, il machete dalla lama di oltre 40 cm, il coltello da guerra, la pistola mitragliatrice MAC – 10.
Ma poco o niente a scandagliare l’animo disturbato e ferito dei protagonisti, gli umani. Nessuno che cerchi di capire da dove nascano quelle cariche represse di odio e sofferenza mentale, di complessi persecutori e violenze paranoiche e come si nutrano di squilibri e traumi che psicoanalisi e neuropsichiatria ci dicono sorti, spesso, già durante gravidanza e periodo perinatale, poi nutriti di distorti legami di dipendenza dalla madre, ombra nefasta a soffocare, avvelenare, la crescita del fanciullo; ci dicono dell’assenza di un padre, di una figura genitoriale maschia ed adulta che indichi all’adolescente le strade per entrare nel mondo , o all’esatto ed altrettanto devastante opposto, la presenza minacciosa di un padre prepotente e violento.
Un ragazzo, un adolescente così ferito e violato è già a rischio per sé e per gli altri, che adulto equilibrato e consapevole potrà mai essere ?
Personalmente trovo stomachevoli, poi, le esternazioni del presidente USA Obama in occasione delle varie stragi che affliggono questa nazione.
“Stomachevoli” perché in esse, nel loro colpire genericamente le armi, vedo sia la logica strumentale del duello politico con il partito repubblicano, da sempre vicino alle lobby delle armi; sia la precisa volontà di non affrontare la disgregazione familiare e poi sociale che caratterizza gli USA e la loro malsana società del profitto a tutti i costi e dell’individualismo sfrenato.

Guardo mio figlio Lupo, seduto davanti a me. Siamo alla pasticceria “Lion d’Oro” per una colazione al maschile: le donne del gruppo, Monica, Susy ed Anna non apprezzano questo locale dal sapore vintage.
Poi a libri, nell’antico palazzo che ospita la libreria Roberti e poi ancora a girar tra gli scaffali del negozio di dischi per il suo primo acquisto di un cd musicale.
Nel mezzo, una visita alla coltelleria del centro, che magari mi regalo un neck knife, dopo aver con lui scambiato un paio di pareri sulle lucide ed affascinanti lame esposte in vetrina.
Torniamo a casa, le mie orecchie straziate dalla voce di tal Chiara espulsa a tutto volume dallo stereo dell’auto e Lupo ad assecondarne la voce: va bé, sono i suoi gusti !!
Come sono io lo stesso che stasera impugnerà nuovamente la morte nera del mio coltello, della mia arma.

E’ l’arma, qualunque essa sia, il problema o la mano che la impugna ?

 I paesini qui attorno sono tutti belli, mostrano mura che sanno di un passato guerriero, merli e torri e feritoie. Strade di ciottoli e case spesse che paiono occultare esistenze gonfie di silenzi e mistero, di discrezione e nascondimento.
Ascolto una tremula scia di silenzio opaco a serpeggiare tra i rumori della strada. Forse è davvero silenzio, quelle ombre lunghe e gigantesche che il sole sparge sui muri antichi, o forse sono voci sottili, parole prigioniere che si dibattono tremanti mentre il varco aperto sul mondo si va chiudendo. E resta, tra auto in sosta, turisti chiassosi nei loro vestiti scomposti, musichette sceme che volano fuori dalle finestre, solo questo mondo post moderno e sguaiato.
Ma nulla mi impedisce  di incantarmi davanti a un portone alla cui guardia montano due fieri animali, agli affreschi di Lorenzo Luzzo, il “Morto da Feltre”, e Marco da Mel che campeggiano, con altri, sulle facciate dei muri del centro, ai palazzi cinquecenteschi che ricordano lo splendore di Feltre.
A seguire, la gita in quel di Pedavena, a mangiare e bere tra i tavolacci dello storico birrificio.
E le montagne alte, dove ogni malga vende formaggi, questi sì che sanno di latte e formaggio, con buona pace dei sapori plasticoidi in stile supermarket della città; le distese dei boschi che si aprono su prati tranquilli; lo scorrere  lento e deciso del fiume Brenta.

Vacanze di riposo e riflessione. Non solitarie, non quel ritiro dal sapore autistico, nel suo mutismo ripiegato su se stesso, come a me piace, ma comunque vacanze piacevoli, dense di emozioni e significati. Capaci di farmi sostare a riflettere. Un anno frenetico, ininterrotto, a volte vissuto come pesante masso di pietra, calcinato dal sole e scheggiato dagli elementi disordinati del caos quotidiano, trova qui, nelle campagne bassanesi, il senso di un dialogo infinito.
Corrente carsica che finalmente vede la luce, la superficie. Permesso alla melanconia di esporsi, di amoreggiare con il silenzio interiore; alla gioia di vivere e morire in un attimo soltanto, senza le catene grossolane del tempo scandito da impegni e orologio; alla riservatezza che si fa forte delle parole di Etty Hillesum, scritte prima di sparire nel campo di concentramento di Auschwitz: “In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla”.
Poi, certamente, con le umbratili emozioni che mi sono proprie, ci sono anche le gustose birre artigianali ed i giochi aggressivi con Kali, il nostro piccolo Boston Terrier; il pub in riva al Brenta, vista sul Ponte Vecchio e gli abbracci teneri di Lupo; la calda vicinanza d’amore di Monica e la mia pratica marziale divisa tra la terrazza che dà sui campi e il fazzoletto di prato tra le case basse; il sorriso aperto di Susy ed i sfavillanti negozi del centro; le risate allegre e le chiacchiere lievi, il concerto di Mario Biondi, le gags con il simpaticissimo Alberto, la camminata su al rifugio Granezza, l’eleganza giovane di Anna e mille altre cose ancora.
Le mie vacanze, insomma.





























Emozioni di notte


Cena sociale Z.N.K.R.
23 Luglio. Agriturismo “Il Bivacco”

 

La tavolata, comunque lunga.

Lo so, me ne rendo conto che con il tempo nessuno può barare, nessuna “Bella Addormentata” ed intorno, tutti immobili, come se le stagioni, gli anni potessero fissarsi in una fotografia che tuttalpiù sbiadisce.

Così mi emoziono a guardare  un bimbetto di sei anni, davanti a me, la barba a incorniciargli il viso e la potente motocicletta lasciata sul cavalletto. E ci sono le striature di grigio sulla barba di Giuseppe approdato alla Scuola appena conclusa l’esperienza militare tra i parà; ci sono i vent’anni di vita vissuta e trascorsa dal nostro primo incontro, nel sorriso di ombre e chiaroscuri di Valerio.

Così mi emoziono, sensazione lieve ed appena percettibile tanto che il cuore fatica a coglierla, per quelli che sono nella Scuola da un pugno di anni, quelli che la Scuola hanno lasciato e, con loro, le compagne ed i compagni degli uni e degli altri che hanno voluto esserci a festeggiare insieme. Questa sera, tutti insieme.
Sono loro a togliermi il respiro, in questa tavolata comunque lunga.
Mi guardo  parlare, mi guardo scartare i loro regali, generosi e d’affetto sincero. La mia mano sul petto, a sfiorare l’immancabile acciaio appeso al collo, a sentire che gli anni, i decenni, sono passati ed io sono ancora lo stesso.
Non nel corpo, infiacchito dagli anni, non nel cuore fattosi più largo tra ferite di battaglie, strappi di pianto ed incontri dal sapore del miele denso.
Ma lo stesso nell’entusiasmo di un bicchiere di vino alzato a brindare per un altro anno, e quanti sono ormai !!, di pugni e calci e fendenti di spada e sudate in Dojo e nei boschi.
Ancora avanti, ancora, in un modo o nell’altro, insieme, allievi ed amici carissimi.





 
 

mercoledì 22 luglio 2015

Taglia e cuci


L’accavallarsi delle sue lunghe gambe scopre misteri insondabili, sensazioni di un profondo umore caldo e lo spettacolo è un sogno  che il respiro nasconde. Pulsa forte il cuore nel disorientamento di non ricordare mai come è stata la volta precedente. E nello sperare di come sarà la prossima.
Figura femmina accanto.

Chissà se il prezioso “neck knife” che ho al collo vedrà, con me, passare le stagioni e con loro i ricordi dell’acciaio che ho avuto, che ho impugnato ,con cui ho offeso e sono stato offeso.
Piccolo, prezioso manufatto. Sorpresa averlo scoperto in un negozietto sul lago, sorpresa scoprire che Citadel, nota per i katana ed i coltelli, ha in sé anche questo piccolo “neck knife”, forgiato a mano, riposto, cuore nascosto, in un fodero di cuoio.

Percorsi scombinati di amore, sesso, acciaio e violenza, che ci possono cambiare se solo li lasciamo andare, se solo li accogliamo dentro.

Nella tremula luce del tramonto colgo una voce, respiro lontano, arrivano i suoi occhi, scuri come buchi nel cielo, insieme, il peso leggero del coltello, il suo monotono dondolare pigro.
Io mi allontano, passi pesanti sotto il caldo che ancora picchia, e picchia duro. Raggiungo la vetta della collinetta, verde arso dal sole e cielo azzurro.
La croce si staglia sottile ed enorme insieme, sigillo di una presenza che scava nell’anima.
Mi perdo, mi lascio andare a stupidi disegni mentali, rincorse di un maschio solo tra prati e cespugli ed alberi.
Il latrare di un cane, in lontananza. L’acciaio ed il suo uso, che qualcuno definì “l’educazione del coltello”, come a dire taglia, lacera, ferisci e riappropriati di te.
Lei, la figura femmina, ma anche lui, il coltello, sono un giacimento di sorrisi e dolori, tenerezze e crudeltà. Luce nera l’una, fredda risposta d’acciaio l’altro.

Sono solo sogni scostanti, pensieri impensabili di un giorno d’estate, senza lacrime e recriminazioni, occhi aperti in un incanto, in un giorno o due di vita d’estate, a Bassano del Grappa. In attesa delle sospirate ferie d’Agosto.
 


 

giovedì 16 luglio 2015

Il terzo tempo


Sul divano di casa, con Monica, a vedere questo bel film italiano del 2013, primo lungometraggio di Enrico Maria Artale.
Nulla di eccezionale, ma una pellicola comunque godibile e che ha diverse chiavi di lettura.
La trama non è nuova, anzi: c’è il giovane disadattato e arrabbiato ad un piede dal precipitare in una vita criminale; c’è l’uomo, un assistente sociale, che gli farà da “guida” nell’inserimento sociale, quel padre che il giovane non ha mai avuto, che è un  disilluso, distrutto da una tragedia privata e che affoga nell'alcool i suoi fallimenti; c’è la scontata, scontatissima, storia d’amore tra il ragazzo e la figlia dell’assistente sociale.
Infine c’è  lo sport (in questo caso il rugby) come viatico di redenzione in quanto maschio e leale sport di contatto, dove più che il singolo conta il gioco e lo spirito della squadra, dove impera “il terzo tempo” (da cui il titolo del film): al temine di ogni partita, le due squadre avversarie si ritrovano a bere e mangiare insieme quale riconoscimento del valore reciproco e della fratellanza che unisce gli sportivi.

Perché scrivere sul mio blog di questo film ?
Proprio per il personaggio di Vincenzo, assistente sociale malandato e coach della squadra.
Questi non fa nulla per nascondere al ragazzo le sue fragilità, i suoi ripetuti errori. Non si pone come un modello ideale ed idealizzabile, ma come un adulto in preda a un malessere profondo e pure dipendente dall’alcool. Un autentico perdente, insomma, inviso ai suoi stessi capi. Ma in lui cova e si sprigiona una sana energia, una coinvolgente forza d’animo quando allena la squadra di rugby. Lì è leader carismatico, lì è educatore a 360°.

Vedo Vincenzo e penso ..
Penso a tutti quei Maestri, Sifu, professori di Arti Marziali e pratiche di combattimento, tradizionali, nuove, inventate, che si ergono su di un piedistallo come fossero una divinità. Che di sé danno un’immagine tutta luccicante ed altera. Pratica possibile solo perché tra loro e gli allievi erigono  un muro, una facciata di circostanza, e questi ultimi sono, per altro, ben contenti di agire da servi, da domestici. Il che li mette al riparo da ogni domanda critica e, soprattutto, autocritica, il che fa loro parlare e scrivere del loro Maestro, Sifu, professore, come un’entità superiore ed invincibile.
Penso che questi super Mestri siano degli autentici vili, incapaci di guardarsi dentro e di confrontarsi, di esporsi nudi mostrandosi anche nelle loro miserie quotidiane. Ecco perché vendono quanto fanno con tanta sicumera, ecco perché lo vendono come fosse l’unica assoluta verità: hanno paura di quel che sono veramente.
Oramai, nemmeno più nei film made in U.S.A. o nei fumetti made in U.S.A. il protagonista è l’eroe bello e buono a tutto tondo !! Finita l’era dei personaggi a cui diede vita John Wayne o dei primi inossidabili 007, questa, finalmente, è l’era degli introversi Batman e Spyder Man, del detective Jimmy Mcnulty di “The Wire”, tanto efficiente come poliziotto quanto in palese difficoltà nella sua vita privata e dai metodi poco ortodossi nel lavoro; persino Biancaneve non è più una santerellina !!
Penso, però, anche a tutti quegli allievi che, divinizzando il loro Maestro, appunto se ne fanno comodo riparo per non sporcarsi le mani con il loro personale malessere. (1)
Lo adorano, ne parlano come di una divinità. Questo li mette al riparo dalla necessità di scontrarsi con le proprie paure, le proprie insicurezza: tanto c’è il Maestro che è un eroe bello ed invincibile, a tutto tondo, a far loro da schermo, da scudo.
Quando, invece, fanno qualche passo avanti dentro di sé, quando scoprono le proprie parti Ombra, le proprie paure e ne entrano in conflitto, comunque ne attribuiscono il merito principale al Maestro: lui, il santone irraggiungibile, li sta facendo crescere.

Un transfert pericoloso, pericolosissimo.
Anche perché quando il suddetto Maestro “cazza”, incespica, ne combina qualcuna, il castello dei loro sogni va in frantumi. Incapaci di separare, di riconoscere il processo proiettivo fin lì compiuto, il Maestro diventa immediatamente un orco, un mostro, un millantatore, un volgare figuro da cui allontanarsi in gran fretta, da denigrare.
Poveretti incapaci di riflettere su quanto è stato loro comodo proiettare su di un altro, quanto hanno fortemente voluto un divinità perfetta accanto che togliesse loro “le castagne dal fuoco”, che facesse da paravento per ogni loro Ombra sporca.

Per questo amo Vincenzo, sguardo tenero e folle insieme, debole ubriacone e lottatore in campo, generoso con i suoi ragazzi ma, a volte, con loro autentico paraculo ( bellissima la scena in caserma con il giudice, in cui “scarica” Samuel, il ragazzo a lui affidato ).
Per questo affermo per l’ennesima volta la forza della vulnerabilità, dell’apertura, nella pratica marziale come nei tratti caratteristici di ognuno.
Per questo mi sento così vicino al Vincenzo di “Il terzo tempo”, ma anche all’ “eroe” (!?!?) di “Come dio comanda” e di “Tu devi essere il lupo”, (2)  pellicole italiane bellissime, che ritengo di spessore maggiore di questa la quale, però, nella semplice godibilità, anche lei mostra quel Sensei (“il nato prima”) che, nel mio piccolo, corroso e fragile, sono io allo Z.N.K.R.
Per questo porto sempre con me quella bellissima frase, che altre volte ho ricordato, in cui si dice chiaramente che uno sciamano non è né un grand’uomo né, tanto meno, un uomo perfetto, anzi !! Ma è uno che non è scappato a ripararsi quando infuriavano pioggia e vento e questa sua esperienza la mette a disposizione di chi, a sua volta, vento e pioggia vorrà sfidare.

Insomma, nella mia incresciosa nudità semplicemente mostrata, nessuno potrà mai dire di non aver colto i tratti del “passeggero oscuro”, per citare il Dexter Morgan descritto nei libri di Jeff Lindsay, dei miei demoni più profondi come delle mie debolezze malate: Nessuno potrà mai incensarmi per i suoi successi e pure per gli insuccessi, che, appunto, sono solo suoi.
Magari, potrà, se lo vorrà, ringraziarmi per aver messo sinceramente a disposizione quel che io sono, le mie esperienze nel mio di bosco, perché anche lui, a suo modo, possa conoscere ed attraversare il suo. Un facilitatore, un Sensei, appunto. E, credetemi, di questi tempi non è poco.

 

1. Succede, a volte, che non sia il Maestro a porsi su di un piedistallo, ma siano allievi / allieve a farlo. In questo caso, starà al Maestro non cadere nella tentazione, nel “tranello” tesogli, restando e mostrandosi saldamente una guida sì ma umana, nuda nelle sue debolezze. E’ che non è facile resistere alle lusinghe, alle sollecitazioni del proprio ego 

2. Entrambi commentati su questo blog, rispettivamente il 3 Giugno 2011 e il 24 Novembre 2012, nell’etichetta “Da vedere”. Chi fosse interessato all’argomento, può guardare la travolgente pellicola U.S.A. “Hesher è stato qui” ( commentata il 2 Ottobre 2012).
 
 

lunedì 13 luglio 2015

La libertà di scegliere


Seminario Kenshindo
Agriturismo “Il Mondo Antico”
Rocca Susella (PV)
11 Luglio 2015

 

Falciata discendente obliqua. Arco di mezza luce che trancia l’aria calda, bollente. Luccichio improvviso, stella abbagliante, a stagliarsi sull’acciaio nudo.

La collinetta è tutto verde ed ancora verde. Si di un lato, ai bordi del laghetto, qualche pigro turista. Intorno, le viti e, più oltre, le colline del pavese.
Paesaggio mozzafiato per nove guerrieri dell’acciaio.

Il lavoro sul seigan, la guardia. Lo spazio tra il corpo indifeso ed il dorso dell’arma, istinto aggressivo, predatorio, lanciato oltre il tagliente, in un gioco armonioso e feroce tra yin e yang, di protezione ed assalto, che convivono nello spazio di un braccio.
Costruire seigan,la guardia, fase di transizione che comprende la forza stabile di un muro di ghiaccio e l’impeto dell’onda in piena.
Questo sì che è affacciarsi sul terreno di combattimento !!

Le sequenze di falciate discendenti ed ascendenti si succedono leste. Tranci di stuoia cadono flebili ai piedi del supporto.
Altre volte i tranci vengono brutalmente strappati dal fusto, cacciati a forza nella gola dell’arsura, sotto il sole cocente. Scaglie di una morte sofferta, priva dell’artistica lucidità assassina che l’acciaio sottile del katana impone. Mica siamo taglialegna, improvvisati boscaioli in hakama e obi, la cintura: tanto varrebbe usare l’accetta !!
Il taglio assassino, quello letale, chiede l’istante di un fermo immagine, mentre la lama cala oltre il bersaglio. E dopo, solo dopo quell’attimo breve e insieme lunghissimo, il trancio cadrà al suolo, esattamente sotto il trespolo.

Fa caldo. Sudiamo.
A volte la lama atterra goffa come una cicogna impacciata, gravata di chissà quale peso. L’acciaio morde la stuoia, financo la lacera, ma è lei a vincere, magari afflosciata, a volte  ancora retta e solo segnata in superficie, comunque ancora integra.
Ferita che sa di beffa per chi, di fronte a lei, ha calato la lama affilata per dare una morte, una separazione, certa e netta.

Ma è così.
Ognuno ad accettare il suo personale momento.
Il disvelarsi di chi si è in quel preciso momento. Terapia cruda e crudele di introspezione, di individuazione, di conoscenza di sé.

Il saluto finale, tra visi commossi, tesi e qualche riga di lacrime.
A tavola, alcool che scorre a volontà, le frasi, le esternazioni di cuore e di pancia di ognuno. Emozioni allo stato puro, emozioni condivise.
Monica e Manuela, gentili accompagnatrici del gruppo guerriero, ascoltano.
Il cibo, ancora il vino, buono e forte.
Per un clan di guerrieri che mi onoro di accompagnare lungo la “Via dello spirito della spada”, Kenshindo: la nostra, la mia, Via.

 “Contrariamente alla norma imposta dal modello culturale prevalente negli ultimi decenni in Occidente, la libertà non si esprime nel confondersi con le spinte pulsionali e collettive, ma con l’affermare distintamente il proprio nome, la propria identità, il proprio io e la vocazione espressa dal proprio sé”
(C. Risé).

 PS) Dato che per noi, come da Tradizione, il Tameshigiri è
“Tameshigiri è la simulazione dell'assassinio di un altro essere umano, e questo genera un grande potenziale di afflizione spirituale (…) Che siano antiche o recenti, le spade possono accogliere forze spirituali insondabili in grado di esercitare un incredibile potere (…)  enfatizzare eccessivamente questa pratica può generare un rischio spirituale quale quello di generare nei praticanti a vedere in questa pratica una sorta di gioco, un atteggiamento mentale che deve essere evitato poiché distorce la solenne natura di questa pratica “ Takamura Yukio
“Il Tameshigiri è solo uno degli aspetti della formazione nella pratica della spada e non dovrebbe essere visto come la sola opportunità nella pratica o fatto come un divertimento o uno sport. La pratica di tagliare materiale inappropriato come frutta, bottiglie d’acqua o altra “roba da circo” dovrebbe essere fortemente sconsigliata. Alla pratica della katana bisognerebbe  approcciarsi sempre con atteggiamento dignitoso  e sincero”. Obata Toshishiro 
raramente lo filmiamo e mai ne esponiamo in pubblico le immagini.
Questa volta, Monica ha ripreso il Tameshigiri per intero.

Chi, solo ed esclusivamente tra i praticanti Kenshindo presenti al Seminario, ne volesse una copia, la chieda direttamente a  Monica. Unico vincolo, farne solo ed esclusivamente un utilizzo privato.
Conto sulla vostra lealtà.
 



 

 

lunedì 22 giugno 2015

Lo spadaccino e il demone muto


Montedinove (AP): Seminario Kenshindo
Mercoledì 17 Giugno

 Acciaio letale. Delirio guerriero.
Ci prepariamo con i bokken, spostamenti repentini.
L’avversario di fronte, poi alle spalle.
Tracciamo il percorso dei fendenti seguendo la linea dettata dal bokken dell’altro, posto di traverso, tra collo ed anca.
Delirio di scontro e confronto.
Suburbia di rancori e pietà. Come una periferia malfamata, da tempo abbandonata al suo rovinoso destino. Intrisa di strade strette e strette, strettissime, prospettive di emancipazione. Lì covano energie dissennate, umori repressi, miscuglio di violenze e fratellanza di strada, prevaricazioni di banda e complicità nascoste.

Ti vorrei qui, accanto a me. Se non a praticare acciaio, a condividere l’aria impregnata di emozioni profonde, di me che mi disvelo ai muti mostri famelici che mi divorano dentro. Che io sono anche questo.

La Via dello spirito della spada”, Kenshindo. Siamo in cinque. Figuri in blu e nero a stagliarsi nel paesaggio maturo delle colline marchigiane, sotto un cielo striato di blu e di viola.
L’acciaio dei katana ingaggia i colori caldi del posto, marroni dalle venature di porpora e verdi mossi come acqua di mare.
L’acciaio straccia l’aria, volti tesi nello spasmo dell’uccisione.
Quanti figuri di blu e di nero ho visto passare.
Chi a scivolare lieve nell’apatia e nella noia che dà brandire una spada come morto oggetto di trastullo, passatempo superficiale, fuori moda.
Chi a fuggire spaventato dopo aver incontrato gli occhi del demonio, il suo demonio, subendo la sconfitta, precipitandosi in ritirata, per salvarsi il culo e non giocare da protagonista il proprio vivere, che la comparsa, in scena, non ha responsabilità.
Chi a lottare, a straziarsi il cuore in una pratica, in un amore enorme e totalizzante, spada sempre con sé, finché arriva il momento che tutta la legna si è esaurita nel bruciare alta, ancora più alta, la fiamma della passione e allora il fuoco muore e ci si accontenta del caldo della cenere, finché dura. Perché poi, il morso del gelido inverno come la banalità del mediocre quotidiano, hanno il sopravvento. E di quella passione, di quell’amore enorme, non resta che uno sbiadito ricordo ed un katana impolverato ad intristirsi inutile su di un mobile in salotto.

Siamo in cinque, solo in cinque e così tanti in cinque, per un fare d’acciaio che divide e sconquassa e rivolta, dentro prima ancora che fuori.
I fasci di bambù ora incombono.
Se le misure contano, 20 centimetri circa di circonferenza, abbiamo pure da fare i conti con la mobilità stessa insita in sei, sette canne tenute insieme da degli elastici: un colpo, un impatto impreciso o grossolano, tagliente malamente a dilaniare il fascio, e le canne si smuovono, creando spazi e fratture imprevedibili.
Le lame calano e ascendono in un susseguirsi cadenzato da movimenti e sbuffi e grida di guerra.
Poi … quel che è stato è stato.
Ognuno di noi cinque sa.

A tavola, coccolati dalla gentilezza di Graziella, la padrona di casa, tra vino forte e liquoroso e la ricchezza stupefacente della cucina marchigiana, le parole del cuore scorrono fluenti.
Fuori, il cielo nero si trapunta di mille e mille stelle.

 “Tra vent’anni non sarete delusi delle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate Scoprite”
(M. Twain)